"Io dipingo tutti i giorni. Sono 15 anni che dipingo. Anche se non ho un’opera da fare, io dipingo. In studio, in strada, su un foglio. È una cosa continua. Non c’è un momento di riflessione o pausa. La mattina, come tu vai in ufficio, io invece mi metto a dipingere. Lo devo fare, me lo sento che lo devo fare". Le parole dalle labbra di Jorit scorrono rapide come i rivoli di colore sul volto della sua Frida Kahlo, l’ultima opera, la nuova tela a cielo aperto che l’urban artist napoletano sta dipingendo in occasione di un progetto molto speciale al La Reggia Designer Outlet di Marcianise, dove resterà visibile fino a novembre 2021, quando sarà donata a una Onlus attiva sul territorio campano individuata dalla Fondazione Jorit. “Frida per me incarna l’artista a tutto tondo che unisce alla sua ricerca pittorica un’esperienza di vita intensa e un messaggio sociale”. Un po’ come te, no?, gli rispondo. Sorride timidamente da sotto la visiera di un cappellino da baseball e una mascherina, con le dita striate dalla pittura che tamburellano sui pantaloni che assomigliano a tele espressioniste, imbizzarrite, eccitate, agitate dalla voglia di stringere di nuovo i gradini di una scala per ricominciare a dipingere. “Non era soltanto una donna che si è emancipata, ha lottato per l’emancipazione di tutte le donne e di tutti i lavoratori. In Frida arte, vita e rivoluzione sono un tutt’uno e vanno a formare quella irripetibile storia che è diventata simbolo e poi mito. Se Frida è oggi un’icona è perché ha superato quella barriera che voleva le donne nel mondo dell’arte messe in secondo piano, relegate ad un rango minore. Frida donna, ma ancor più artista, è tra gli artisti più importanti di sempre e tra i miei preferiti in assoluto”. Un nuovo volto che entra nella sua ormai celebre Human Tribe, come lui stesso l’ha definita, una tribù universale di volti potenti e espressivi disseminati in gran parte del mondo, e riconoscibile da due segni rossi sulle guance che sono diventati la firma inequivocabile del writer classe 1990. Due strisce che evocano rituali magici e iniziatici delle tribù africane, in particolare il rito della scarnificazione che segna il passaggio dall’infanzia all’età adulta e l’entrata dell’individuo nella tribù. Per l’artista, che ha deciso di renderli materici anche sul suo volto 8 anni fa a seguito di un viaggio in Tanzania, questi segni hanno un grande valore comunicativo e di appartenenza, “apparteniamo tutti ad una sola tribù, senza distinzioni di genere, razza, religione, provenienza, età. La tribù umana”. “Siamo particolarmente orgogliosi di poter avere nei nostri spazi l’artista Jorit e una sua opera realizzata per il nostro pubblico. La Reggia Designer Outlet è da sempre vicino al mondo dell’arte e da diversi anni ospita artisti di vari ambiti con un forte link al territorio” controbatte Fabio Rinaldi, Centre Manager di La Reggia, il più grande outlet del Sud Italia. “McArthurGlen crede fortemente nel valore dell’arte e ancor più nel lavoro di Jorit che da anni, attraverso i suoi potenti murales, si fa portavoce di un messaggio di speranza per una società slegata da gerarchie sociali, disuguaglianze economiche e pregiudizi di genere”. Da Pier Paolo Pasolini a Fedez, da Pablo Neruda a Maradona, dal Cile all’Isola di Aruba passando per la Palestina e le periferie di Roma, Milano o dell’Argentina, Jorit celebra personaggi della storia e della cultura contemporanea e nuove icone popolari per colpire (e affondare), lanciare messaggi (o raccoglierli), riflettere (e far riflettere), emozionare (e emozionarsi). “A volte mi sento in difficoltà quando mi chiamano artista. A parte che ormai nel mondo dell’arte contemporanea è diventato un termine fumoso, non si sa più cosa sia o non sia l’arte, chi sia o non sia l’artista. A me piace solo che tutti possano vedere in modo gratuito quello che faccio”

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A proposito di empowerment femminile, di donne street artist al mondo ce ne sono? Quante sono?
Ce ne sono, ce ne sono eccome. Tra le più famose c’è Miss Van, ma posso confermare che nella street art, anche nelle piccole realtà, la percentuale uomo-donna è ben distribuita.

Quanti litri di colore scorrono sul volto di Frida?
Pochi, ride, perché questo è piccolino. Io lavoro con gli spray, pensa che solo per la pelle ho utilizzato 12 toni diversi. Poi capita anche che dipinga utilizzando solo un colore, soprattutto quando sperimento a casa con disegni più piccoli. Ogni tanto ci vuole, per rilassarmi un po’, stare giorni interi su una scala a fissare un muro è un po’ faticoso.

La persona che non ritrarrai mai?
Un criminale di guerra tipo Hillary Clinton.

A cosa pensi nell’attimo che precede il primo tratto di un’opera?
Penso a quando è finita, perché quando guardo l’opera conclusa mi esplode dentro una soddisfazione enorme. Anche se non è facile capire quando è finita davvero, quando non devo più togliere o aggiungere pennellate. Dipingere è un processo che fa anche un po’ male, perché tu aspetti aspetti e poi a un certo punto è tutto finito, e ne vuoi fare subito un’altra ancora. Un’opera è un po’ un parto, è una cosa bella ma dolorosa.

Uno dei tuoi ultimi ritratti è stato quello in memoria di Luana d’Orazio, la ragazza di 22 anni morta sul lavoro. Quando/come decidi che una persona farà parte della tua human tribe?
In quei giorni mi trovavo a Roma, stavo facendo un lavoro per la palestra popolare Valerio Verbano, e appena ho sentito quella storia mi sono pietrificato, mi ha molto colpito. Ho pensato che dedicarle un ritratto potesse essere l’occasione per parlare della sicurezza sul lavoro. Volevo fare la mia parte, contribuire nel mio piccolo a dare voce a queste storie. Penso che Luana sia solo il caso più recente salito alle cronache, ma non sarà nemmeno l’ultimo, purtroppo. In Italia ci sono tre morti al giorno sul lavoro. Quando ho concluso il ritratto è successo molto di più di quello che mi aspettassi, mi ha chiamato anche la madre di Luana, si è creato un legame quasi intimo con quest’opera, molto personale, molto sentito.

Hai un muro bianco, cosa disegneresti in questo momento?
Non dico mai la mia prossima opera.

Allora dimmi l’ultima, Frida a parte.
Durante il periodo del primo lockdown ho incominciato a dipingere a terra in bianco e nero, colori che sintetizzano la pesantezza di quei momenti. Stavo sul tetto della casa della mia compagna e ho dipinto lì. Poi sono andato dal vicino e ho detto “scusa ma ti dispiace se…” e ho dipinto pure quello. Poi ho chiesto anche al vicino del vicino… I momenti di crisi sono i momenti più creativi per me. Il risultato è un’opera composta, c’è la ballerina cubana Alicia Alonso, una delle più grandi di tutti i tempi, che aveva un legame speciale con Napoli, poi Jimi Hendrix, per un discorso legato alla lotta per la pace, poi una fotografia del costruttivismo sovietico e infine il calciatore Sócrates, tra i più amati in Brasile. Il filo rosso che li univa era la battaglia a supporto dei diritti sociali che ognuno di loro, a modo proprio, ha portato avanti per tutta la vita.

Da nato e cresciuto ai piedi del Vesuvio, quando/dove/come ti esplode Napoli dentro quando dipingi?
Napoli è una città viva, di fuoco, è una città donna, come la lava, che ti dà energie che le altre città non ti possono dare, è rivoluzionaria, ha una marcia in più, ha una spinta in più. Per questo le mie opere per Napoli hanno un respiro internazionale, raffigurano personaggi diversi, dal ‘Maradona umano’, e non il calciatore che ha vinto lo scudetto, al San Gennaro che ha il volto del meccanico amico mio. Non mi piace molto l’idea della Napoli-macchietta: mandolino, pizza e mafia, secondo me va a sminuire la potenza e la bellezza di questa città. Voglio uscire dagli schemi senza fossilizzarmi. A ridurre Napoli a macchietta gli si fa proprio un torto. Penso alla Napoli criminale presentata dai telefilm che tutti conosciamo… Preferisco lo stereotipo di Troisi che prende in giro la napoletanità, non quello di una serie tv che deve fare scandalo.

Dicono tu abbia smesso di nascondere messaggi fra le pennellate…
Nelle opere piccoline sì, non c’è gusto, la gente li scopre subito. In quelle più grandi forse li nascondo ancora…

Il ritratto della giovane attivista Ahed Tamimi sul muro di separazione fra la Cisgiordania e i territori occupati da Israele ti è costato l’arresto, il carcere e il divieto di ingresso in Cisgiordania per i prossimi 10 anni. Cosa si prova a subire tutto questo per “un disegno”?
È stato un giorno soltanto eh… Io in realtà ho iniziato nell’illegalità, quindi non è una cosa che mi stupisce più di tanto. Non ho mai capito il confine tra legale e illegale, non c’è mai stato, spesso nemmeno le autorità sanno che fare, io ho sempre dipinto e sticazzi, arrestatemi se volete, non mi importa. Se dovessi contare tutte le volte che mi ha inseguito la polizia o che sono dovuto scappare…

Come è cambiato il lavoro dello street artist negli ultimi 10 anni?
Per tutti quelli che dipingono sui muri è cambiato tutto con Bansky. Lui ha aperto una strada e ha dato una possibilità a molte persone di viverci con questo lavoro, e non è una cosa banale o scontata, prima di Bansky non era così. Ha reso famoso questo mondo e tutti noi dobbiamo essergli infinitamente grati, artisti o non artisti. E poi, sempre grazie a lui, il mondo ha iniziato a rendersi conto che anche la street art può essere un mezzo per dire qualcosa. Sennò non stai facendo arte, stai facendo semplicemente decorazione.

Quando hai deciso che saresti diventato uno street artist?
Non l’ho deciso ma in un momento preciso della mia vita ho capito che ci potevo e ci dovevo vivere. Era il 2013, avevo appena ottenuto le prime due commissioni importanti, in quel momento mi sono detto detto “okay sì, posso farcela”. Ma in realtà non ho mai avuto dubbi, da quando ho 13 anni ho sempre fatto solo questo. Per un periodo in Australia ho fatto l’imbianchino che alla fine è un po’ la stessa cosa (ride). Anche se in futuro dovesse andare male, non me ne fregherebbe niente, io continuerò a dipingere in ogni caso.

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