La prigione, il carcere, una dimensione temuta che per fortuna la maggior parte delle persone su questo pianeta non sperimenterà mai, e che coloro che ci sono dentro sperimentano in mille versioni territoriali. L'incubo di finirci senza motivo, per sbaglio, che almeno una volta nella vita assale tutti. Attualmente uno dei pochi riferimenti pop che abbiamo sulla vita in prigione, romanzato e comunque testimonianza di un carcere di minima sicurezza, è una serie come Orange Is The New Black, e anche per questo quando si parla di tutela dei diritti civili diventa difficile immedesimarsi in realtà parallele come quella che in questi mesi stanno vivendo detenuti famosi (e spesso innocenti) come l'avvocata Nasrin Sotoudeh in Iran. Baz Dreisinger è una giornalista criminologa fondatrice di Prison-To-College Pipeline, il programma di istruzione di alto livello all'interno degli istituti carcerari che ha riabilitato migliaia di detenuti, in base al principio per cui una più bassa scolarizzazione pone a rischio maggiore di affiliarsi alla criminalità. Dreisinger scrive articoli per il New York Times, Wall Street Journal, Forbes, Los Angeles Times. Per quest'ultimo ha realizzato una storia di copertina sull'hip-hop e il sistema carcerario e la storia di una star del reggae in prigione in Giamaica. È professoressa, critica culturale, attivista e organizzatrice di comunità, ed è spesso in Italia dove l'abbiamo incontrata per parlare del suo ultimo libro Incarcerazioni di massa, (titolo originale: Incarceration Nations: A Journey to Justice in Prisons Around the World), tradotto e pubblicato da Mimeis/Eterotopie.

In questo potente saggio, Baz Dreisinger racconta la sua odissea fra le carceri di tutto il mondo partendo dall'Africa fino all'Europa dove ha incontrato donne e uomini che le hanno permesso, con le loro testimonianze, di fotografare da un intenso e scioccante punto di vista un mondo di cui di solito è negato l'accesso agli "altri". "Sono cresciuta nel Bronx, a New York, negli anni 80 e 90", spiega Baz Dreisinger, "figlia della generazione hip-hip e amante della musica e delle comunità caraibiche, da cui sono stata plasmata. Il mio lavoro nelle carceri è una somma di tutte queste cose. Ho prodotto due documentari sull'argomento e ricevo costantemente lettere da detenuti che mi invitano per proiettare nei carceri i miei documentari e parlare del mio lavoro". Tutto era iniziato quando Dreisinger aveva un amico in prigione e insegnava al John Jay College of Criminal Justice a New York City. L'aria intorno a lei odorava solo di prigione, ed è diventata la sua vita. "Dopo le prime proiezioni e discussioni nelle carceri, ho iniziato a fare volontariato come educatrice in quei luoghi, quasi 18 anni fa. Mi sono resa conto subito che la risposta della società americana al crimine si riduce all'immagazzinare letteralmente esseri umani frutto del razzismo sistemico e della disuguaglianza, anche quelli più brillanti. Mi è sembrato disumano, dolorosamente ingiusto e sorprendentemente stupido, e ho capito che le prigioni ci rendono solo meno sicuri".

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Baz Dresinger ospite al Nelson Mandela Centre parla del progetto Incarceration Nations Network

Mentre lavorava nelle carceri statunitensi, prima come volontaria e poi come fondatrice di Prison-to-College Pipeline, al John Jay College of Criminal Justice, Baz Dreisinger viaggiava per il mondo per scrivere articoli di viaggi. "Viaggiando, ho notato che mentre l'opinione pubblica negli Stati Uniti stava iniziando a prestare attenzione alla crisi dell'incarcerazione di massa, il resto del mondo si rifiutava di affrontare il problema", racconta. "Ho iniziato a scrivere sulle prigioni e anche sulla responsabilità degli Stati Uniti nell'averne forgiato i modelli di riferimento globale". E così che la giornalista ha cominciato a buttare giù le prime tracce di Incarcerazioni di massa. "Volevo scrivere un libro che ci facesse fermare e ripensare lo scopo stesso delle carceri, a riflettere sulla logica – o, dovrei dire, illogica – di esse. Ho combinato i due concetti, ho viaggiato in nove paesi in tutto il mondo e ho trascorso molto tempo a interagire con i loro sistemi carcerari, di solito come volontaria di qualche ONG locale. Ogni capitolo si concentra su un concetto particolare che volevo che ripensassimo: vendetta e danno, prigioni e capitalismo, prigione e arte, e poi ancora donne e incarcerazione e altro ancora".

Parliamo solo di correggere le persone, ma in realtà abbiamo bisogno di correggere una società che produce persone che ricorrono al crimine

Incontrando persone in carcere in qualsiasi parte del mondo Dreisinger pone subito l'attenzione su un fattore comune a tutti i detenuti: "la quasi insondabile resilienza e volontà di sopravvivere nonostante le loro condizioni infernali. Mi colpisce, quando raccontano le loro storie, quanti di loro siano puramente prodotti del loro ambiente: provengono da comunità trascurate dai governi, da condizioni di disuguaglianza strutturale e spesso anche di razzismo. Non hanno necessariamente scelto il crimine: a causa di queste circostanze è il crimine ad aver scelto loro. Per questo non mi piace la parola 'riabilitazione'; implica che le persone abbiano bisogno di essere riabilitate, ma in realtà non sono mai state 'abilitate' in primo luogo perché non sono state date loro reali opportunità di lavoro e di istruzione. Parliamo solo di correggere le persone, ma in realtà abbiamo bisogno di correggere una società che produce persone che ricorrono al crimine, la società che consente l'esistenza di disuguaglianza e discriminazioni. Ho visto questa realtà ancora dagli Stati Uniti all'Africa, all'Australia, all'Europa e all'Asia".

Il libro, per Baz Dreisinger, è stato solo l'inizio di un viaggio nel mondo delle carcerari globali. Dopo la pubblicazione negli Stati Uniti ho fondato Incarceration Nations Network, una rete globale e un think-tank che supporta, promuove e diffonde gli sforzi innovativi di riforma carceraria in tutto il mondo, con cui ha già visitato le prigioni di almeno 75 paesi. Prima di salutarla le chiediamo un'opinione su un caso che sta particolarmente a cuore all'Italia in questo momento, quello di Patrick Zaki: "Questa storia fa parte di una grande tragedia globale a cui il mondo deve prestare attenzione", spiega Dreisinger. "Credo anch'io che il suo caso possa essere legato a quello di Giulio Regeni. Chiaramente, Patrick rappresentava una minaccia per l'Egitto ed è incoraggiante vedere gli italiani uniti in sua difesa. Ma la triste realtà è che storie come la sua non sono rare. In tutto il mondo c'è una gran quantità di persone innocenti detenute per anni senza processo e, di solito, perché non possono permettersi un avvocato; sono stata in paesi in cui più del 60% della popolazione carceraria è in attesa di processo e il tempo medio di attesa è di sei anni. In Egitto, dalla pandemia, le autorità hanno trattenuto centinaia, molto probabilmente migliaia, di persone in custodia cautelare senza la pretesa di un controllo giurisdizionale. Per cui, mentre ci concentriamo su una tragedia individuale come quella di Patrick Zaki, è importante tenere sempre a mente il quadro più ampio, in modo da ottenere un cambiamento sistemico e un mondo più giusto dove questi episodi non accadano più".