“Anni fa, Marta non scomparve: il suo sguardo è diventato il nostro. Marta è vita e più passa il tempo e più la musa inquieta induce la nostra vista a cercarla tra la bellezza che ha cercato”. Inizia con queste parole La Musa Inquieta, il cortometraggio che Massimiliano Finazzer Flory ha dedicato all’unica e inimitabile Marta Marzotto, un film in soggettiva dove il volto della protagonista è nelle cose che vediamo e in cui ci riconosciamo, dalle sue foto ai suoi vestiti (su tutti, i tanti, meravigliosi e colorati caftani), dai gioielli ai quadri fino ai giornali, alle case e ai paesaggi che diventano per noi familiari, perché lì ha resi tali con la sua firma, con il suo estro creativo o semplicemente con il suo sorriso, capace di celare anche dolori, tristezza e nostalgia. La dimostrazione esatta, per dirla alla Proust, che le anime di coloro che abbiamo perduto, sono imprigionate in qualche essere inanimato.

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Marta non c’è più, questo è vero, ma resta in un colore, il verde smeraldo (si intitolava Smeraldi a Colazione la sua autobiografia), nel vento del maestrale, in una forma che indossiamo per essere leggeri e liberi. È in una borsetta che non si deve però appoggiare sul letto o nelle sue amate Dolomiti - sotto un campanile - come in una spiaggia isolata della Sardegna, la "sua" isola, o su un tappeto nomade a Marrakech avendo sempre una coppa di champagne in mano, divisa tra una lettura, un cruciverba e un gioco con le carte. Marta è soprattutto un quadro – La Madonna del Libro di Botticelli, da lei restaurato in onore della figlia Annalisa scomparsa prematuramente nel 1989 e conservato al Museo Poldi Pozzoli di Milano – è lei che gioca con gli sguardi dove la famiglia e il suo sorriso incorniciano un punto di vista del mondo. “Marta era una donna di mondo – ci spiega il regista quando lo incontriamo alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia - e sapeva come il mondo avesse bisogno di un principio femminile: la cura. C’era in lei il farsi cura delle cose, l’amarle e donare bellezza da intendere come un ripensare all’arte della cura dove il pennello della sua generosità intinge i suoi colori dentro i nostri ricordi per scoprire che Marta rinasce con noi”.

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Bella, bellissima, curiosa e creativa: era questo e molto altro ancora quell’eterna ragazza nata poverissima che riuscì a vivere una favola sposando il conte Umberto proprio a Venezia, su una barca, “impaziente di restare soli”. “Volate alto – diceva – e metteteci fantasia. Se non avete una storia d’amore, inventatela”. Fu amata e corteggiata da tantissime persone, da uomini e da donne, e il suo cuore batteva per loro anche contemporaneamente, come ci ha più volte raccontato, a cena a Roma o durante un aperitivo a Parigi, quando la sua “nipotina” Beatrice Borromeo, sfilò per la prima volta nell’Alta Moda. Con Renato Guttuso si conobbero a Milano nel 1967 e il loro primo incontro avvenne nell'anno in cui nacque il primo figlio maschio della contessa avuta dal marito Umberto, Vittorio. Entrambi erano sposati, lei divenne subito la sua musa, ritratta come una donna, una madonna, una ninfa o "acciambellata" su un disco volante mentre tagliava le unghie a un leone. Lui le scriveva frasi irresistibili, centinaia di lettere, chiamandola "nuvola bionda” o "libellula d'oro". Contemporaneamente, frequentò anche Lucio Magri, intellettuale e parlamentare comunista. Il pittore, da buon siciliano, era estremamente geloso e si vendicava ritraendo il rivale con fattezze da orango o scagliando pesanti bicchieri di whisky contro le tele in lavorazione. In proposito, sempre col sorriso che non era mai finto, fu sempre lei a raccontarci che "la gelosia si rivelò per Renato una straordinaria spinta creativa. Senza quella molla non avrebbe dipinto tanti capolavori", sminuendo così la cosa. Il suo salotto romano con vista sulle bellezze della Capitale era – come lei – il più desiderato e chiunque voleva andarci. La sua “ricetta”, si dice nel film, era la pazienza, l’amore, la disponibilità, l’ironia e la curiosità.

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Finazzer Flory la racconta con tatto e delicatezza, senza banalità ma solo con gran stile, facendoci seguire una donna bionda come lei che la incarna e la fa rivivere: è sua figlia Diamante che è anche la produttrice del film, inquadrata nei posti a lei più cari. “Parlo attraverso il film, ci spiega lei senza nascondere l’emozione, perché dal vivo, su mia madre non riesco mai a dire una parola. Cosa amavo di lei? – aggiunge. “Il coraggio e la naturalezza, ma soprattutto la sua generosità. Non potevi dirle che ti piaceva una cosa o quello che aveva o indossava – una collana, un bracciale, un anello o altro – perché se lo toglieva all’istante e te lo donava. Prima di andarsene, aveva comprato molte sciarpe di cashmere e le aveva portate con sé. Le regalò tutte alle infermiere che si erano prese cura di lei. Era fatta così”. Sì, perché Marta faceva sempre i conti con quello che aveva avuto, restituendo alla vita quello che la stessa le aveva dato.