C’è un film che andrebbe visto lontano dai carichi di emozioni e visioni della passata Mostra del cinema di Venezia 2021: il suo titolo è già la chiusa di un biennio in cui il fare squadra è stato un imperativo cercato, condiviso, voluto e apprezzato. Centoundici. Donne e uomini per un sogno grandioso è un titolo che potrebbe appartenere a storie di molte persone diverse tra loro, e lo è. Il regista Luca Lucini (regista tra i più recenti della serie tv sulla moda italiana, Made in Italy) è stato chiamato da Confindustria, per la prima volta presente a Venezia, per raccontare un’avventura corale che scivola tra l’Italia del presidente Einaudi e la dad della pandemia da Covid 19. Alessio Boni, Cristiana Capotondi, Giorgio Colangeli e Adriano Occulto si lasciano dirigere da Lucini: le centoundici persone del titolo sono tutti i professionisti coinvolti in questo cortometraggio. Un ringraziamento che arriva dopo numeri drammatici per il cinema: 380 mila addetti dello spettacolo e cultura rimasti senza lavoro durante la prima ondata 2020, ed è per questo che il film si muove su due registri temporali, gli anni della nascita di Confindustria, nel Secondo Dopoguerra e l’attualità di un’altra guerra pandemica. Chiara (interpretata dalla Capotondi) è una professoressa che si trova a fare i conti con la dad e che può avere i tratti contemporanei di Teresa Mattei paladina dei diritti delle donne, incontra in un centro vaccinale un uomo maturo, Alberto (interpretato da Colangeli): il centro in cui si trovano ora è stata una fabbrica che ha cambiato il modo di fare sistema in Italia. No spoiler e parliamo invece con il regista Luca Lucini a poche settimane di distanza dall’adrenalina di Venezia 76 e pochi giorni prima del Festival del Cinema di Roma, segno che la settima arte ha ripreso a marciare.

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Centoundici persone per un film: i sogni più grandi sono sempre un miraggio collettivo?
Sì, assolutamente! Faccio questo mestiere da sempre e credo che nessun lavoro come il cinema abbia bisogno di tante persone e di un gruppo coordinato con lo stesso entusiasmo e passione. Per me è sempre stato importante il rapporto, il miraggio come l’hai chiamato giustamente tu, collettivo: un regista indica la meta ma senza 111 persone o senza una troupe non vai da nessuna parte, “la nostra è un’arte impura” non è come il musicista o lo scrittore che può creare in solitaria, noi abbiamo bisogno di un sacco di professionisti. Insieme si ha una potenza di fuoco maggiore.

Quanto e come è cambiato il fare cinema in Italia dall’inizio della Pandemia?
Adesso che sta ripartendo il settore vedo che c’è la volontà di collaborare, di co-produrre con case di produzione che prima erano in ovvia competizione e che oggi si mettono insieme per portare avanti un progetto, persone che si organizzano per dividersi gli attori impegnati su più set contemporaneamente, cerchiamo tutti di venirci incontro. Questo periodo ha cambiato la percezione e la voglia di collaborare.

Il film si muove su più piani temporali: presente e passato. Qual è la parte più difficile di questa alternanza?
Più che difficile direi che è stato molto stimolante il lavoro degli storici: sono usciti moltissimi materiali, sia riferimenti fotografici che racconti, modi di parlare, il discorso del presidente Einaudi è indicativo del linguaggio dell’epoca. Devo dire che costumisti, scenografi, storici, attori hanno fatto un lavoro eccezionale. Se dovessi ammettere qual è stata la parte più complessa sceglierei la contemporaneità, cioè rendere credibile e umano il momento che stiamo vivendo tutti. Questo, per certi versi, è stato più difficile.

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“L’emozione di entrare in fabbrica”: metaforicamente qual è stata la prima volta in cui hai vissuto quell’ingresso in fabbrica?
È stato il primo set, che di per sé ha un fascino particolare. La prima volta mi ci sono trovato come comparsa, ero affascinato da tutto quello che non capivo, era il tardo Medioevo (ride ndr) tra l’87 e l’89, all’Università circolava la voce che se andavi a iscriverti alla Rai agli studi di Corso Sempione ti pagavano per fare il pubblico o la comparsa in qualche trasmissione. E tra le altre cose è così che ho conosciuto Ago Panini con cui poi ho fatto la serie Made in Italy. Per chi non vi è mai stato l’effetto è davvero forte: sul set è tutto un brulicare di persone e ti chiedi ma cos’è tutto questo? Quello è stato il mio primo giorno in fabbrica. Mi ha segnato definitivamente.

Se potessi scegliere chi vorresti che vedesse questo film? Una generazione in particolare, addirittura una persona specifica?
L’ambizione di chi fa cinema è di avere una responsabilità che condivido con Confindustria, ovvero raccontare un momento storico che sarà, nel bene e nel male, irripetibile. Quindi la nostra volontà è che questo film venga visto da più persone possibili, che ci si rivedano i ragazzi giovani e la dad a distanza, chi va a vaccinarsi per la seconda e terza volta, chi ha i ricordi di quegli Anni 50, che ognuno ricordi momenti che hanno segnato inevitabilmente le nostre vite.

Il sogno grandioso che hai ed è è ancora in attesa di divenire realtà?
Diventare tennista famoso! No scherzo. Ha sempre a che vedere con il mondo del cinema, ed è un film un po’ più personale, ho fatto tanti tentativi e forse ora ci sto riuscendo, sarebbe il primo della mia carriera in questo senso. Non ne parlo oltre perché sono scaramantico ma ci terrei, tantissimo.

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Il regista Luca Lucini sul set