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Night-Clan

La notte di Milano ha una sua orchestra e un direttore multi-talented: Marcelo Burlon.

Di Antonio Mancinelli
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Getty Images

PARTY! Al mondo dei nottambuli internazionali piace questo elemento. Marcelo Burlon, infatti, colleziona “like” dalle tribù trasversali dello stile e dello spasso un po’ chic, un po’ choc, un po’ snob e con calcolati scivoloni nel trash. Da vero Facebook umano, Marcelo Burlon – 35 anni, nato in Patagonia – connette persone diverse, linka esperienze differenti (è blogger, modello, pr, stylist, creative director, dj, fashion editor) e le riversa in un cenacolo di talenti che sceglie per la sua “enterprise”. Un nome fra tanti? La celebre Lea T, prima top model trans poi divenuta testimonial di Givenchy. Marcelo ha reinventato le notti a Milano, città che non ha la vocazione alle giocondità notturne, dopo gli anni della città da bere che Marcelo non ha visto perché non era ancora al mondo. Con il suo mix di intelligenza, diplomazia, gentilezza (e un pizzico di furbizia) ha fondato la serata Pink is Punk, che non solo accende i suoi fan (ce n’è una ogni quindici giorni e sempre in location diverse), in attesa per ore pur di passare dalla severissima door selection. L’evento è addirittura diventato un esempio di Made in Italy formato export: ci sono Pink is Punk Nights a Istanbul, Mosca, Barcellona, Beirut, Buenos Aires, New York, San Paolo «dove c’è lo stesso tipo di pubblico che mi aspetta». Dopo dieci anni di ferrea costanza antelucana, arriva la consacrazione. Il New York Times gli ha dedicato uno shortmovie (titolo: Marcelo Does Milan), gli stilisti fanno a gara per farsi griffare da lui la colonna sonora dei défilé - da Raf Simons a Dolce & Gabbana, da Missoni all’amico Riccardo Tisci di Givenchy - e continuano i duetti alla consolle con i miti musicali contemporanei. Di questi, il suo preferito è l’amico Devendra Banhart: «Ci siamo fatti l’un l’altro gli stessi tatuaggi», afferma un pomeriggio alle due, ora in cui normalmente dorme (e infatti ordiniamo più caffè di un thermos di una famiglia allargata in gita). «Vuoi vederli?». «Certo». Tira su il pullover nero e sopra i gomiti appare la scritta “De Repente” (braccio destro) e “Luz” (braccio sinistro). Chi scrive, se lo ricorda alla porta dei Magazzini Generali negli anni 90 e fa un certo effetto ritrovarlo qui, imprenditore nella distrazione di massa: ma una massa superelitaria e trasversale che lo idolatra senza se e senza ma. È appena tornato dalla Patagonia, sta per andare in Brasile e ieri sera ha messo la musica a un party di un celeberrimo brand: «Ok, sì. Poi ho avuto un party intimo a casa mia, non mi sembra il caso di parlarne».

Se volessi venire a una tua serata, cosa dovrei fare? Sono troppo vecchio? Ma no! Noi non facciamo nessun tipo di discriminazione. Non devi neanche vestirti come in una rivista di moda: conta l’attitudine, quella sì. Il modo in cui ti comporti, ti avvicini, chiedi. Alle mie serate è apprezzata la buona educazione. E l’ironia.

Che attitudine dovrei avere? Il nome Pink is Punk nasce dall’intuizione – trovata con un mio amico skater – di accostare due elementi diversi, per sottolineare l’eterogeneità del nostro pubblico. Uno stereotipo della cultura gay – il rosa – insieme con uno stereotipo underground, il punk. Quindi troveresti gay, etero, trans che si divertono in un ambiente che sì, è sicuramente parecchio modaiolo. Ma non troppo, credimi.

Scusami: era necessario che ci fosse uno dalla Patagonia per smuovere le notti meneghine? Il mondo non ha più confini geografici o politici, soprattutto per i giovani. Sono nato nel ’76, sono arrivato a Milano nel ’90: mio padre è italiano e quando aveva 13 anni si è trasferito con i suoi genitori a Buenos Aires. Mia madre è argentina, ma i suoi genitori sono libanesi. Appartengo a una famiglia di immigranti da tutte e due le parti, quindi anch’io sono un immigrante. Siamo passati da una vita superprivilegiata per tornare qui e andare a lavorare in fabbrica. Ho trovato la mia via di fuga nei locali, iniziando a guadagnare: ballavo sui cubi, portavo la gente giusta nei club. Non ho studiato, avevo la terza media. Ora insegno marketing alla Bocconi.

Ti senti più argentino, italiano o apolide?
D’istinto direi: argentino. Ma poi sento fortissime le mie radici italiane, soprattutto per il gusto e la capacità di saper organizzare con precisione le cose. Questa è la parte veneta di papà. La mia parte sudamericana è invece legata al desiderio di divertire e far divertire gli altri.

Com’è cambiata la scena milanese da quando avevi 14 anni?
All’inizio Milano era una città apatica, grigia, che viveva sulle glorie degli 80. Poi, per fortuna, hanno cominciato a venire nuove band. E non sottovaluterei l’evoluzione di internet e delle droghe. Un ventenne di oggi ha una velocità di pensiero più elevata di quella che avevo io alla sua età. Prima si doveva aspettare una settimana per leggere sul giornale cosa fare. Ora lo sai subito. Questo si traduce in una richiesta di qualità più alta, anche per ciò che riguarda il nightclubbing.

Parlavi di droghe…
Sì e mi sembra anche ipocrita non parlarne: alle mie feste non credo ci siano, pensa che io ho chiuso anche con le sigarette. Però i decenni della nostra storia sono in qualche modo stati segnati da droghe diverse, non credi?

In che senso?
Le droghe modificano anche le relazioni tra le persone...La marijuana nei Settanta, la cocaina neglio Ottanta, l'ecstasy nei Novanta, oggi la sua essenza, l'MDMA. Esistono. Inutile negarlo.

Qualcos'altro ti appassiona, oltre al tuo lavoro?
Per me tutto passa attraverso il buddismo che prescrive di «essere nel punto giusto al momento giusto». A me è successo: credo in un rapporto di causa ed effetto. Tutto quello che ho desiderato fare si è realizzato: certo, con dedizione e sacrifici. E un modo fresco, diverso di comunicare. Quando ho lavorato per l’apertura di grandi boutique, le pr dei brand mi dicevano: «Ma perché lavori per noi?!». Rispondevo che portavo loro una ventata di aria fresca. La stessa che respiri nel mio blog, dove metto in vetrina quella parte di Milano di creativi, artisti, stilisti che non hanno modo di farsi notare attraverso canali diversi.

Milano è una città per vecchi?
Penso che sia più che altro una città di passaggio. I vecchi rimangono, quindi tocca a noi offrire delle soluzioni importanti in termini di creatività. Ora per esempio collaboro con la galleria Cardi, uno dei luoghi dell’arte contemporanea più legata all’alta borghesia. E mi trovo benissimo.

I borghesi nuovi rocker?
Certo! La borghesia è tornata a essere una comunità sociale interessante, formata da ragazzi che sanno le lingue, hanno studiato e viaggiano. Il termine “borghese” per me ha una valenza estremamente positiva.

Sei il sindaco di Milano per una settimana: che cosa fai?
Studierei un piano d’illuminazione diversa per alcuni quartieri trascurati, come i Navigli, dove abito io: potrebbe essere il Lower East Side lombardo e invece è abbandonato. Renderei la città più bella, ne farei un polo turistico perché Milano nega le sue bellezze. Più bar con il wi-fi gratis, niente pavé e niente tram: sono pericolosissimi per chi va in bicicletta.

Una cosa, invece, che ti piace di Milano?
I borghesi. Non fumatori.

La persona più affascinante che hai incontrato?
Marina Abramovic´.

Facciamo finta che ho 18 anni e voglio far parte del tuo team. Quali requisiti mi richiederesti?
Serietà, puntualità, rigore. E poi, ehm... Mi dispiace, ma non dovresti essere gay.

Non è politicamente scorretto?
Può darsi. Ma non voglio fashion victim accanto a me. Preferisco dei nerd che non approfittino del mio ruolo per chiedermi favori. Invece amo lavorare con le ragazze.

Quali sono le differenze tra la nightlife a Milano e nel resto del mondo?
A Milano, se vuoi essere figo esci tardi, ma alle cinque i locali chiudono e dalle due non puoi più bere alcolici. Tutta la tua bravura si gioca in tre ore. All’estero, si inizia presto e si finisce tardi… Scusa, non è molto meglio?

Dove vai a New York?
Suono al Chelsea Hotel dove c’è Ladyfag, la Burlon di NY, che ha inventato le serate Clubber Down Disco. E poi alla Boom Boom Room nello Standard Hotel.

A Londra?
Alla serata Ponystep, che è diventata un sito e un giornale.

A Barcellona?
Al Cabaret Berlin dove suona la mia amica Silvia Prada.

A Berlino?
Al Panorama Bar.

A Parigi?
Al Silencio di David Lynch.

A San Paolo?
All’Hot Hot Club.

Cosa ascolti quando sei solo?
Nicolas Jaar, che fa un’elettronica molto intima. Devendra Banhart. E cantanti argentini folk, da Chango Spasiuk a Gonzalo Aloras.

E quando fai sesso?
James Blake!

Se ti chiedessi di organizzarmi una festa, che mi chiederesti per prima cosa?
Qual è il tuo budget.

Tre parole per pubblicizzarti?
Musica. Passione. Avanguardia.

E per pubblicizzare Milano?
Ecco, lasciami pensare un attimo...

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Video: Symphony of Milano

Gianluigi Gargaro

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Marcelo Burlon

Gianluigi Gargaro

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Symphony of Milano

In prima fila, da sinistra: Sylvie May, Alberto Brasola Barina, Nicola Ceri, Agnese Schultz, Francesco Calò, Max Panichetti e Federico Rossi. Dietro: Lorena Manelli, Ophelia Kumble, Giorgia Tordini, Emmanuelle Moutinho, Massimo Mezzavilla, Giancarlo “Gienchi” Grossi, Celine Derrien, Tamu McPherson, Zac Malone, Adrianna Glaviano. In piedi: Marcelo Burlon, Lea T, Silvia Bergomi, Ilaria Norsa, Sydney Gaubelle, Paolo Farcic, Honey Dijon.

Gianluigi Gargaro

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