Al 63/a di via dei Quintili, la via del Corso del Quadraro Vecchio, dal 1947 c’è la bottega del barbiere Luigi Scarano. Entrandoci, colpisce l’armonia tra la vetusta dignità degli arredi d’epoca e la modernità dell’impianto hi-fi, collegato a una pianola che non sembra ricoprire un ruolo meno importante dei lavelli o dello specchio. Si capisce subito che questo è un posto in cui passato e presente, mestiere e vocazione, sono andati più volte all’osteria insieme.

Se il Quadraro avesse un quotidiano tutto suo, il nome della testata sarebbe Gino, come le Figaro a Parigi. Gino, infatti, è il barbiere del Quadraro nella stessa triplice modalità in cui il suo collega rossiniano lo era per Siviglia: tagliando, cantando e risolvendo problemi. In quanto a multiforme ingegno, Gino è ben oltre l’EGOT club, quel numero assai ristretto di artisti che ha vinto almeno un Emmy, un Grammy, un Oscar e un Tony. Vorremmo vedere come se la caverebbero Harry Belafonte o Barbra Streisand a tagliare i capelli a un manovale del Tuscolano, o a Fellini. Invece, per tutta la sua carriera —cominciata, nel 1945, a 7 anni — Gino Scarano è stato sempre perfettamente in grado di coprire, con la stessa disinvoltura, i vuoti di memoria di un quartiere, le piccole e medie debolezze del cinema italiano e gli interi repertori della canzone americana, francese, romana e napoletana.

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Sara Cervelli

Il Quadraro è una zona di Roma che ha vissuto principalmente due vite. La prima, come set della seconda guerra mondiale, quando divenne il più impenetrabile nido di vespe che le truppe tedesche e quelle diversamente italiane incontrarono mai, nel loro Risiko di quartieri, città, popolazioni. La seconda, come backstage della nascente, poi trionfante e infine decadente Cinecittà — la Hollywood sul Tevere — ospitandone le maestranze, gli aspiranti attori e i divi mancati, i sarti e i parrucchieri. Un’altra città della fantasia, anche se con un piede in più per terra. Oggi, non essendoci più una Resistenza da combattere o un grande film da girare, non resta che godersi quei labirinti di vie e di ricordi, che sembrano fatti apposta per resistere al traffico o alla solitudine.

E così Gino imparò a fare la barba delicatamente, direttamente sui palloncini

La famiglia di Gino veniva da Mattinata, sul Gargano. Suo padre aprì un negozio di abbigliamento in piazza Re di Roma dove, con suo grande orgoglio, era cliente fisso Rossano Brazzi. Il quale non mancava di affascinare il piccolo Gino, non solo per il suo aspetto aitante, ma soprattutto per i suoi racconti da un mondo che, improvvisamente, sembrava sì distante, ma più reale della Puglia o dei quartieri alti. Era un bambino bellissimo. Se dava una mano al padre a sistemare un manichino, bucava la vetrina e non c’era sparato di camicia abbastanza inamidato da competere coi suoi occhi azzurri, nella soglia dell’attenzione delle passanti. A scuola era bravo ma discolo, e il professore di musica era un sacerdote tosto. Un giorno convocò il padre di Gino e la famiglia andò in ansia, come se avessero chiamato dal commissariato di porta San Giovanni. “Stia tranquillo, suo figlio è diligentissimo. Non ha nulla per cui rimproverarlo. Ma ha una voce straordinaria e le consiglio di fargli studiare canto, per crescere”. Tornato a casa, non ci fu verso: “Gino, ricordati che le cicale campano poco, imparati un mestiere”.

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Si trasferì al Quadraro per fare il barbiere. E così Gino imparò a fare la barba delicatamente, direttamente sui palloncini, ai tempi in cui nelle borgate c’erano solo due strade, che non erano il cardo e il decumano, ma la giusta e la sbagliata. Comparve di soppiatto in una manciata di film: Senza famiglia - Ritorno al nido, Figli di nessuno. Era a un passo da Sciuscià quando, dopo 3.000 bambini, De Sica ne scelse un altro. Fortuna volle che non perdette mai di vista la bottega del padre, e non si montò la testa, mentre passava le giornate a rimettere in ordine quelle degli altri. Il cavallino che ancora oggi, in bottega, è destinato ad accomodare i clienti più piccoli, avrà più o meno la sua età. A Gino lo hanno chiesto per il cinema, il teatro, la tv. “Gli ho fatto guadagnare qualche soldo, a quel cavallino”, sghignazza, lanciando un’occhiata al pezzo di modernariato in cui ha nascosto i suoi sogni di gloria. Era bravo ed economico e col tempo, preso il posto del padre, divenne uno dei punti di riferimento del quartiere. Aggiungete che era così piacente che i clienti non avevano bisogno di portare ritagli di riviste: come modello bastava indicare lui. Era temuto come la peste dai fratelli maggiori delle ragazze più ambite dei dintorni. Ma lavorare duramente non gli ha impedito di incidere 1.178 canzoni, di cui molte in inglese o napoletano del Quadraro. Da Gino non si ascolta la radio, ma la playlist sempre accesa delle sue cover e dei suoi originali.

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Sara Cervelli

“Ciao Scarano!” — lo salutano oggi i passanti di via dei Quintili, aprendo e richiudendo la porta della bottega, sincerandosi che sia operativo, per ripassare dopo la spesa. Se non c’è nessuno in fila, il quarto d’ora di riposo che si concede, sedendo alla poltrona riservata ai clienti, è più rinvigorente di qualunque pausa caffè. La poltrona ruota di novanta gradi, si accende il televisore e quella seduta e quello schermo diventano un cinema che proietta il film della sua vita. Questa volta è su Rai Due, con gli occhi che gli brillano parlando di Nino Terzo (“er tartaglione del cinema”) e, naturalmente, della vecchia borgata, di quando le barozzette coi cavalli, quelle che si usavano per trasportare i calcinacci, correvano intorno alla croce dei caduti, ed era per tutti il Palio del Quadraro.

Totò gli diede 1000 lire di mancia

La sua amabilità non colpisce tanto per le pari opportunità che concede, nelle attenzioni e nei ricordi, a personaggi famosi e gente comune. Questa, tutto sommato, è una pratica abbastanza consolidata in luoghi che hanno visto la guerra e la dolce vita. Quello che ti scioglie il cuore è quando, con la stessa gioia e dovizia di particolari, ti racconta la sua intervista con Tiberio Timperi e quella volta che fece un viaggio in treno con Mastroianni, una delle prime volte che andava a trovare la Deneuve. La sua non è mai confusione o incapacità di mettere in prospettiva gli eventi: è davvero solo buon cuore. L’unico personaggio che goda di un qualche trattamento di riguardo è il primo cliente della carriera di Gino, a cui è dedicata metà della vetrina e il maggior numero di foto e documenti, nella galleria appena alle pareti della bottega. Alla Titanus un giorno c’era Totò. Chiamarono suo padre per fargli la barba. Il padre voleva che si limitasse a insaponare il Principe e passargli un paio di volte il rasoio sul viso, usando la parte senza lama, per non ferirlo per sbaglio. Ma lui no, testardo, girò il rasoio un’altra volta. Totò gli diede 1000 lire di mancia, senza farsi vedere da nessuno, anche se la banconota era grande come un piccolo lenzuolo. Gino aveva sette anni ed era finalmente un ragazzo spazzola.

Totò gli diede 1000 lire di mancia

La mano di Gino riesce nella missione di far diventare tutti più belli, dentro e fuori o, in mancanza dei necessari spazi di manovra, solo dentro. Ha fatto i capelli a Giovanni Paolo II (ne possiede un elogio, debitamente incorniciato) e Paolo VI — “Quando era ancora cardinale aveva già quattro capelli in testa, ma io glieli ho fatti lo stesso”. Gino ha vinto fiere internazionali, insegnato in 26 scuole, ma il suo più grande cruccio è quanto oggi il suo mestiere possa essere caduto in basso, come non si possa fare concorrenza a chi ti fa pagare un taglio 6 euro e non ti sa cantare nemmeno My way. Con Figaro ha in comune anche l’estrema mobilità. Ha sempre lavorato ovunque, in bottega come negli studios, nelle case del Quadraro come in quelle, al centro, di Maestri e celebrità. Ancora oggi, che non è più un ragazzo, Gino è una specie di supereroe dalla doppia vita. Quando chiude la serranda della bottega, tutti i pomeriggi, non lo fa per raggiunti limiti di età, ma solo per sconfinata bontà. Quasi sempre ha da raggiungere il letto di un amico che ha un bisogno impellente di ascoltare una delle sue canzoni o ricordare — un po’ meglio di quanto permetta normalmente una stanza d’ospedale — com’era il Quadraro quando i suoi abitanti erano connessi tra loro come se non ci fosse un Whatsapp, e infatti non c’era. Prima c’erano i pugliesi, poi i calabresi, poi i siciliani. “Ognuno sembrava aver tanto da dire da poter scrivere a più mani chissà che filmone neorealista”. Negli anni ‘60 facevano la spesa collettivamente, anche perché la norma era che si mangiasse insieme, facendo a turno con l’orchestrina, perché tutti sapevano suonare uno strumento, e tutti avevano fame. “Quando sei in compagnia, uno spillo resta uno spillo, non ti puoi sbagliare. Da soli, diventa una trave”.

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Oggi il Quadraro sembrerebbe vuoto se non fosse per il via vai dei tanti popoli stranieri che sono venuti a vivere qui: “Bravissime persone, solo che non sembrano farsi abbastanza compagnia”. Un tempo, la mattina presto, Gino alzava la serranda e fuori, ad aspettarlo, c’erano già trenta amici, di cui quasi nessuno che avesse bisogno della benché minima spuntatina. Non aveva idea da dove venissero fuori: era come se passassero le notti all’addiaccio, neanche la sua bottega fosse un Apple Store la mattina del debutto di un iPhone, ridisegnato ogni giorno. In effetti, i suoi giga di memoria e le sue funzioni erano numerosi e apprezzati come quello di uno smartphone. Oggi, un po’ melodrammaticamente, soprattutto perché lo fa mentre lavora a un’acconciatura e risponde a un’intervista, confessa di essere rimasto solo con tre sole features: “Apro, mi guardo allo specchio e mi saluto”.

Il quartiere gli ha già dedicato un piccolo ma significativo monumento. Alla fermata della metropolitana di Porta Furba, il barbiere del Quadraro è rappresentato dall’artista Ugo Spagnuolo mentre è perennemente intento a imbottigliare un ricordo. Il più grande merito di Gino Scarano è non aver rimpianto la sua parte in Sciuscià, anche perché, se avesse superato anche quell’ultimo provino, forse, non sarebbe mai potuto diventare il migliore attore protagonista di questa parte di Roma.