Durante un tragitto in taxi ho capito il significato di hair shaming. Il tassista mi ha sentito parlare al cellulare mentre prendevo gli ultimi accordi per l’intervista a Bellamy Okot e, indiscreto, ha prontamente fatto, a voce alta, l’equazione “africana uguale capelli crespi”. Perfetto. L’etichetta è appiccicata. Ci sono le Pel di carota con i capelli rossi, le ricce capricciose, le bionde stupide e le sciatte che non li colorano e vanno orgogliosamente in giro con la testa bianca.

Bellamy Okot, nata in Italia da genitori ugandesi, ha i capelli afro ed è una delle ambasciatrici scelte da Pantene per la campagna #StopHairShaming. Un fiume in piena Bellamy si occupa di comunicazione e cooperazione internazionale e ha fondato Afroitalian Souls (afroitaliansouls.it), piattaforma digitale attiva su web, Facebook, YouTube e Instagram.

«È un progetto nato dalla frustrazione di non essere considerata italiana e dall’assenza di una rappresentazione degli italiani di seconda generazione in ambito socioculturale e politico. Vorrei cambiare l’immaginario legato allo stereotipo africano: sono italiana ma sono ancora considerata figlia di immigrati. E pensare che quando vado in Africa per parlare con mia nonna ho bisogno dell’interprete!».

Non si cresce mai? «Mi chiamano in mille modi, cespuglio o medusa, spesso mi paragonano a Caparezza o a Patty dei Simpson. E poi mi toccano i capelli senza chiedere il permesso. Non sono un fenomeno da baraccone o un barboncino da accarezzare. Ho subito bullismo sin da piccola. A scuola, senza che me ne accorgessi, mi lanciavano in testa gomme, palline di carta, penne che inevitabilmente rimanevano incastrate trai capelli e me ne accorgevo soltanto al ritorno a casa. A 11 anni, dopo le elementari, ho implorato mia mamma per avere il permesso di stirarmi i capelli con l’acido, volevo essere accettata dalla società e considerata bella. È molto difficile quando si cresce in un Paese senza vedere nessuno uguale a noi in tv e sui giornali. Non bisogna sottovalutare il potere della rappresentanza. Da tutti i punti di vista, anche quello fisico. Così, dopo un anno e mezzo di insistenza, mia madre ha ceduto. Da quel momento ho smesso di avere la testa afro ma non ero comunque felice. Un momento cruciale è stato il primo viaggio in Uganda, con i miei genitori, avevo 16 anni. Quando sono tornata ho deciso di recuperare un legame con la mia vera natura, compresa quella dei capelli, che in un certo senso avevo cercato di rinnegare. Ho pensato: “Che bella sensazione essere se stesse senza dover chiedere scusa”. La transizione è durata sei mesi, avevo metà testa afro e le lunghezze lisce. Così mi sono rasata a zero. Uno shock, non mi riconoscevo più, però i miei capelli a mano a mano crescevano come non li vedevo da anni e ho dovuto imparare di nuovo a conoscermi e ad amarmi. È stato un periodo difficile, ma ne sono uscita più forte perché ho imparato ad accettarmi contro le opinioni di tutti. Soffrivo il peso degli sguardi e prima di uscire mi facevo discorsi di autostima davanti allo specchio. Adesso mi sento rinata».

Oggi c’è orgoglio. «Qualcosa è cambiato. Ci sono molte serie tv, film dove c’è una maggiore rappresentanza di donne nere simili a me, se penso a Lupita Nyong’o che ha vinto l’Oscar. Apparteniamo alla stessa etnia Luo. Con Afroitalian Souls cerchiamo di diffondere il messaggio che oggi l’Italia è un Paese multietnico, facciamo video verso problemi socioculturali, spieghiamo i termini più giusti da usare, diamo consigli estetici, ci occupiamo di coppie miste. Desideriamo contribuire a creare l’Italia che vorremmo vedere, più equa, più unita».