L’odore delle città in questi mesi è cambiato. Non ce ne siamo forse resi conto a livello conscio, ma le fastidiose esalazioni di carburante sono diminuite (meno macchine in circolazione), e si sono mescolate a quelle dolciastre e alcoliche degli onnipresenti gel disinfettanti. Il periodo della pandemia, negli ambienti urbani, avrà dunque una sua “firma” olfattiva, che specifici programmi informatici possono identificare e registrare per consegnarla alla posterità: questa era Milano (ma anche Parigi, New York o Londra) al tempo del Covid… Lasciando poi al nostro cervello il compito di collegarvi le relative emozioni. Ogni epoca e ogni luogo lascia un’impronta olfattiva, spesso altrettanto eloquente, anche se meno codificabile rispetto a una foto o a un dipinto. Ed è seguendo il filo di questo ragionamento che l’Unione Europea ha stanziato quasi 3 milioni di euro nel progetto triennale Odeuropa che racconterà quattro secoli del Vecchio Continente attraverso gli odori. Sono coinvolte 7 prestigiose istituzioni accademiche tra le quali la Fondazione Bruno Kessler di Trento e una schiera di scienziati, storici, intellettuali, ma anche informatici e chimici per studiare come siano cambiati gli odori delle città e come questi ne riflettano le mutazioni sociali ed economiche. Si va dall’aroma di incenso usato per combattere le malattie a quello di inchiostro e di legno delle biblioteche, fino ai sentori pungenti di rosmarino e di catrame bruciati, usati in grande quantità nel Seicento perché considerati purificatori dell’aria contro la peste. Ma potremo anche scoprire gli umori che si respiravano ai bordi dei canali di Amsterdam nel secolo di Rembrandt, quelli delle vie di Londra quando Shakespeare presentava le sue opere a teatro oppure far viaggiare le nostre narici nel Settecento, tre le dorures ancora fresche della Fenice appena inaugurata.

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La fruttivendola di Vincenzo Campi, 1850 circa. Ciliegie, susine, pesche, uva, fichi maturi evocano in chi guarda sentori di freschezza e note zuccherine.

L’obbiettivo è di costruire una sorta di “archivio” o un’enciclopedia da leggere attraverso il naso, che potrà eventualmente essere utilizzato per allestimenti e addirittura far parte di un percorso museale accanto a opere d’arte e reperti storici. «Lavoriamo soprattutto sui testi e sulle immagini, elaborando i dati con programmi di intelligenza artificiale creati appositamente. Ci siamo accorti, ad esempio, che nei dipinti prevalgono suggestioni olfattive positive quando vi sono rappresentazioni di fiori e frutta, mentre in letteratura abbiamo trovato e raccolto molte descrizioni di cattivi odori che imperversavano nelle città o associati alle malattie. Con queste ricerche vogliamo capire quali sono gli odori-chiave che hanno modellato la nostra comune cultura», spiega Sara Tonelli, responsabile del gruppo di ricerca in Digital Humanities alla Fondazione Bruno Kessler.

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Illustrazione d’epoca che ritrae una Flapper Girl degli anni 20 alla toletta di un boudoir con una bottiglia di profumo tra le mani.

«Attraverso l’olfatto si aprono questioni «sulle differenze tra comunità per toccare addirittura l’identità nazionale», ha sottolineato la docente di Archeologia Sophie De Beaune in un recente congresso sulla Sensorialità svoltosi a Tours. «Sappiamo per esempio che gli uomini primitivi vivevano circondati da odori di bruciato, di carne cruda e putrefatta che oggi ci sembrerebbero insopportabili, ma che per loro erano assimilati alla protezione e al cibo, quindi avevano una connotazione positiva». Anche col tabacco si potrebbe fare un discorso analogo, aggiunge Sara Tonelli: «Quando arrivò in Europa nel XVI secolo era visto come esotico e il suo aroma incuriosiva e riscuoteva successo, poi progressivamente si è banalizzato per finire quasi demonizzato e percepito come puzzolente. Oppure il muschio, usato in abbondanza nei profumi ottocenteschi: estratto dalla ghiandola di un capretto asiatico, che emanava note forti, fecali, e che oggi, prodotto sinteticamente, ha una connotazione carezzevole e rassicurante ben diversa da quella di origine animale. Il numero di odori con cui conviviamo si è progressivamente ristretto e questo spiega perché anche il vocabolario a loro collegato si sia ridotto». Nel campo delle fragranze, oggi si tende addirittura a cercare di dare forma a quartieri o luoghi ben precisi, con determinate specificità, come ha fatto la maison Trussardi con la collezione Le Vie di Milano, in cui ogni fragranza descrive strade e piazze meneghine, espressione ciascuna di un diverso lifestyle; o il marchio Zara che, con la creatrice Emilie Coppermann di Symrise, ha scelto di ridare vita a scorci di Parigi meno conosciuti, ricostruiti su basi quasi antropologiche legate alla loro immagine e frequentazione: il parc Montsouris, la place Dauphine o ancora il parc Floral. Ci sono profumi tuttavia capaci di attraversare le epoche restando sempre desiderabili. Alcuni classici? Habanita di Molinard (oggi riedito, in origine creato per coprire l’odore delle sigarette fumate dalle donne) o l’intramontabile N°5 di Chanel, due fragranze che compiono entrambe cento anni. Perché ci sono sentori che resistono ai cambi di società e di gusti: «Ma non tutti», rivela Tonelli, «recenti esperimenti, come la ricostituzione del profumo di Caterina de’ Medici o quelli di Napoleone, hanno per esempio dato esiti meno consensuali».