Morbido, rotondo, glorioso. Un seno impegnativo. Specie se hai meno di vent’anni, stai crescendo in un’epoca che i reggiseni li mette al rogo e il tuo idolo è Jane Birkin, incarnazione di seduzione moderna e senza curve. Non che mi dispiacesse il mio seno generoso, mi era capitato di sbirciare qualche amica o compagna di scuola “piallata”, e francamente non avrei fatto cambio. Ma che fastidio gli occhi maschili che si soffermano sul balconcino, i commenti che vorrebbero essere complimenti e sono solo fonte di imbarazzo. Da sempre, il mio seno è rimasto segreto, condiviso solo con gli “intimi” sistematicamente nascosto al resto del mondo, mimetizzato da colori scuri, abiti accollati, maglie di un paio di taglie di troppo.

«Accidenti, che tette!», era il commento ricorrente di chi mi vedeva al naturale, senza copertura: e io gongolavo soddisfatta, non perché la mia quarta prorompente era stata svelata, ma perché ero riuscita a mimetizzarla fino a quel momento. Fonte di gioie e dispiaceri, il seno abbondante. Peccato che negli anni, anzi nei decenni, la percentuale inevitabilmente si sposta verso i secondi. Ci sono parole che legate all’aspetto fisico subiscono una piccola ma significativa deviazione semantica: quando dici “rilassato”, se ti riferisci a parti del tuo corpo - seno, mento, interno coscia - non è bello, vi assicuro. Personalmente non sono mai stata ossessionata dall’aspetto fisico, la vanità non è una mia prerogativa, e soprattutto non ho mai approvato gli interventi di chirurgia eclatanti, certe protuberanze improvvise o gonfiori sospetti li considero - ancora oggi, che ho annullato tutte le riserve sulla medicina estetica - un autentico orrore. Ho fatto una scelta salvifica, e a lungo mi sono detta che non sono perfetta, ma non sono così male, tette rilassate comprese. E per qualche anno, il delicato compromesso psicofisico ha funzionato. Sino al crollo, intendo quello della pelle e degli ormoni: ragazze, tenetevi stretti gli estrogeni fin che potete.

Perché quando la forza di gravità incontra la menopausa, lì sì che diventa impossibile far finta di niente. Per me la prova del nove sono state le fotografie: aiuto, chi è quella matrona con quei ponfi informi lì davanti? Mi trovavo a spiare certe signore per strada, un tempo si diceva “di mezza età”, e forse non è più politically correct definirle così. Ma tu lo pensi lo stesso: che a quell’età ormai ci sei, e che non vuoi apparire così. Perché non si parla più di rilassamento, ma di caduta libera.

Per non dire della questione reggiseno: scegliere quello giusto, che sostenga senza assomigliare a un corpetto contenitivo, era ormai un’impresa. Sempre alla caccia della taglia adatta, con l’80% dei modelli che non supera la famosa coppa C, quando io ormai viaggiavo sconsolata nel resto dell’alfabeto.

Quando ho chiesto informazioni a un chirurgo estetico, un amico, da una parte mi ha incoraggiata: «Fallo, è il momento giusto, sicuramente se ne avvantaggerà la silhouette e la postura», dall’altra terrorizzata, perché la riduzione chirurgica del seno non è un’operazione né semplice né banale. E in più è costosa, anche più della mastoplastica additiva. E mentre lui parlava di drenaggi, suture, cicatrici, la vaga intenzione di operarmi si allontanava. Senza svanire del tutto, tanto che ho continuato in un angolo della mente a pensarci. Per anni. Perché sono fatta così, quando decido di fare qualcosa non mi ferma niente. Ma devo esserne pienamente convinta. Fino a quando navigo tra dubbi, resistenze, insicurezze ho la sensazione di stare per avventurarmi in qualcosa che non fa per me. Una spavalda paurosa, insomma. Infatti per molto tempo il timore del male fisico, del risultato finale, della spesa,ha superato la voglia. Fino all’estate scorsa. Torrida, la prova lampante che il cambiamento climatico esiste. E che io avrei passato tutte le future estati della mia vita a portarmi addosso il fastidio di quel seno straripante, e a maledirmi per non aver fatto qualcosa.

«Giuro che me lo faccio ridurre», ho detto alla mia amica Veronica. E così ho fatto. Una serie di mosse non troppo studiate ma probabilmente già “avviate” almeno mentalmente, mi hanno portato senza troppe difficoltà allo studio di un professore che, oltre a darmi tutte le risposte e le rassicurazioni di cui avevo bisogno, ha pronunciato le parole magiche: «È un’operazione che facciamo a tantissime donne». E non è un caso che da quel momento ne ho incontrate davvero parecchie che si erano operate, e almeno quelle con cui ho parlato, mi hanno detto tutte la stessa cosa: «Mi ha cambiato la vita, in meglio». Dalla collega che in eccesso di ottimismo me l’ha descritta come una passeggiata di salute (in realtà, sono tre ore sotto i ferri in anestesia totale). O la dottoressa ecografa, che mi racconta di essersi operata giovanissima, e che sta meditando su un “ritocchino” tardivo. O la commessa del grande magazzino che mi aiuta nella scelta del reggiseno per la convalescenza, con cui scatta il gossip complice: «Pensi che c’è un famoso chirurgo che per le sue pazienti sceglie personalmente il reggiseno». Lei, uno scricciolo di donna, alla fine mi confessa che si è operata tempo fa, e quando incuriosita delicatamente indago, mi dice: «Pesavo venti chili in più. Per me è stato difficile, ho sofferto abbastanza». Ho scoperto così che, nonostante sia una scelta davvero diffusa, alla fine non si parla molto della diminuzione del seno, forse perché generalmente è una scelta legata all’età matura, al decadimento fisico e non solo al desiderio di miglioramento estetico. O magari perché è un cambiamento meno “visibile” di altri, salvo casi estremi. Per quanto mi riguarda, anche subito dopo l’operazione, molti non se ne accorgono nemmeno,ricevo solo più complimenti - «Come stai bene, sei dimagrita?» -ma quando spiego che mi sono “solo” fatta ridurre il seno, mi godo le espressioni sorprese, quasi incredule. E a me va benissimo così, lo scopo non era sembrare più giovane e bella, ma togliermi un peso, anche metaforico. La domanda che segue è inevitabile: «Ti ha fatto male?». Ebbene, no.

Non vi sto a dire l’euforia al risveglio dall’anestesia, perché nonostante gli strati di bendaggio e i famosi drenaggi attaccati, no, non avvertivo niente. Probabilmente, mi è stato detto, ho una soglia del dolore alta, ma in genere è un intervento non traumatico che però richiede cura e accortezza nelle settimane del post-operatorio. O, come dice Veronica, amica e anestesista, non c’è nulla come il convincimento pieno per rendere più lineare e facile la degenza: potere della psiche.

«Ma sono piccolissime!», ha esclamato mia sorella quando mi ha vista in piedi il giorno della dimissione dalla clinica. Sì, piccole: come non speravo. E la mia silhouette è totalmente trasformata, i primi giorni ero addirittura estasiata, provavo canotte aderenti e non credevo ai miei occhi. Ho avuto solo un attimo di leggera malinconia quando mi sono decisa a buttare i vecchi reggiseni: sola soletta, ho celebrato il loro funerale, e insieme quello del mio corpo com’era, perché adesso ne avevo uno nuovo, a cui dovevo abituarmi. E all’inizio è strano, e anche se ti piace non è ancora “tuo”, ci vuole un po’ di tempo. Certo, da nuda, le cicatrici si vedono, e si vedranno sempre. Sono il segno che qualcosa è successo, anzi è stato provocato. Ma anche questo non mi dispiace, per me è un monito. Nei momenti in cui le ferite erano ancora sensibili e fastidiose, tutto mi tirava un po’, ecco che qualche inutile ma insinuante senso di colpa affiorava: non avrei potuto piuttosto fare una dieta, andare in palestra, spalmarmi di cremine magiche? E poi, a un livello più profondo, perché ogni volta che qualcosa (o qualcuno) mi dà fastidio, io lo elimino, senza mezzi termini? C’era proprio bisogno della chirurgia estetica? Sì, perché adesso sono più soddisfatta. E sì, anche a me questo ha cambiato un pochino la vita: in meglio.