Appena tornata a casa da scuola, come ogni giorno ero corsa subito in cucina e mi ero accomodata sul pavimento a gambe incrociate per attaccare le figurine scambiate con le compagne. Era il 1990, avevo dieci anni, e quello de La sirenetta era l’ultimo album che mi sarei concessa prima di decidere definitivamente che per me era arrivato il momento di diventare grande e provare a comportarmi come tale, con risultati altalenanti ancora per un po’. La tv era accesa, era l’ora del tg, e tra i rumori di stoviglie e posate a un certo punto mi è giunta, assieme al profumo della passata di pomodoro, la voce pacata della giornalista - che fino a quel momento evidentemente non era stata in grado di distogliere la mia attenzione da Ariel, Sebastian e Ursula. Il servizio che stava per iniziare era di costume, un servizio leggero in cui si parlava di una delle top model più famose dell’epoca: Cindy Crawford.

Sono passati tantissimi anni, sarebbe impossibile per me riportare a memoria le parole pronunciate fuoricampo mentre scorrevano immagini di una splendida venticinquenne che si faceva fotografare sorridente e con il vento tra i capelli, ma ricordo precisamente l’argomento: il neo sopra il suo labbro. Veniva definito “un difetto”. Un “piccolo difetto”, si diceva con indulgenza, che forse la rendeva ancora più bella, chissà, e di cui lei non si vergognava: aveva addirittura scelto di non farselo rimuovere e di non nasconderlo con il trucco. Un’eroina. In meno di trenta secondi la me decènne aveva appreso due informazioni che, suo malgrado, le si sarebbero insinuate nella testa: i nei erano difetti (e se i nei erano difetti figurarsi cosa potevano essere le lentiggini, le orecchie grandi, le gambe ossute, gli occhiali spessi, la pancia, una voglia sul viso...); c’era da stupirsi, tanto da parlarne in tv, del fatto che una donna non si vergognasse dei suoi difetti e avesse deciso di conviverci con serenità.

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Mengwen Cao/Getty Images/#ShowUs

A quel tempo era difficile girarsi dall’altra parte, per il semplice motivo che “l’altra parte” non esisteva: c’erano solo la tv e le riviste, la pubblicità e il cinema; e schermi grandi e piccoli e pagine più o meno patinate rimandavano quasi sempre l’immagine di donne che si somigliavano tutte. La bellezza era una donna occidentale, alta, magra, longilinea, capelli lisci o appena mossi. Dentro o fuori: o eri bella in quel modo lì o molto banalmente non eri bella.

«A volte rimpiangevo di non essere più graziosa: a volte desideravo di avere le guance rosate, il naso diritto, una piccola bocca fresca come una ciliegia; desideravo essere alta, maestosa, con una bella figura; mi sembrava una disgrazia essere così piccola e scialba, e avere lineamenti irregolari e marcati. Perché queste aspirazioni e questi rimpianti? Sarebbe difficile dirlo, non me lo spiegavo nemmeno io, eppure avevo una ragione, e una ragione logica, naturale», scriveva Charlotte Brontë in Jane Eyre. E descriveva perfettamente quell’urgenza illogica di sentirsi graziose che tutte le ragazze a un certo punto della propria vita sentono pressante, come se la bellezza fosse essenziale per il raggiungimento di qualsivoglia obiettivo, e talvolta fosse proprio l’obiettivo.

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Jacobia Dahm/Getty Images/#ShowUs

Noi ragazzine nate e cresciute in quegli anni potevamo con gran forza d’animo decidere che il nostro aspetto non fosse poi così importante mortificando questo naturale desiderio di piacere, e potevamo imbarcarci in una battaglia contro il bisogno di essere apprezzate, potevamo farcela, arrivando a comprendere che essere belle non era né il lasciapassare per la felicità, né un dovere sociale. Potevamo farcela e ce l’abbiamo fatta, ognuna con i propri tempi, nonostante in pochi allora ci dicessero che la bellezza poteva essere fatta di altro, poteva avere la forma e l’aspetto del coraggio, dell’intelligenza e della sicurezza, per esempio, come invece avviene adesso, e che eravamo molto altro rispetto a un’immagine statica.

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Shiraz Azzam/Getty Images/#ShowUs

Ma qualcosa ci è mancato, almeno a quelle di noi che non rientravano nello spiraglio piccolissimo del canone estetico di quegli anni. Questo qualcosa era la rappresentazione. Se non eravamo come Cindy Crawford e le sue colleghe, e nemmeno come le ragazze di Non è la Rai, con quei loro sorrisi sempre accoglienti e ben confezionati, la spensieratezza ostentata, se non eravamo belle secondo una rigidissima corrispondenza del nostro aspetto a quello rimandato dai media, cosa eravamo? E dove eravamo? Assenti.

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Lynzy Billing/Getty Images/#ShowUs

E poche cose fanno sentire sbagliate come non riconoscersi nel mondo, e sentirsene una sgrammaticatura. Specchiarci negli altri, vedere in chi abbiamo intorno le nostre caratteristiche, ci permette di accettarci, prima, e con un po’ di impegno, di amarci poi. Amarci infinitamente. Negli ultimi tempi, però, qualcosa è cambiato e, anche se apparentemente le pressioni sociali che ci chiedono di essere perfette paiono aumentate, è in atto una rivoluzione di cui al momento si sente solo l’eco e di cui col passare degli anni riusciremo a comprendere la portata. Nel 2019, grazie alla globalizzazione, ai social, al fatto che esista la possibilità concreta di frequentare virtualmente uno spazio infinito, abbiamo la possibilità di voltarci dall’altra parte, perché l’altra parte adesso c’è. Esiste.

L’altra parte è il mondo, sono milioni e milioni di ragazze e donne che vivono in luoghi in cui i canoni estetici sono diversi, in cui a volte anche le caratteristiche somatiche sono lontane da quelle che abbiamo imparato a riconoscere nel paese o nella piccola città in cui siamo nate e cresciute. Occhi a mandorla, forme prosperose, fisici androgini, pelli chiarissime e scurissime, capelli lisci e riccissimi, labbra sottili e carnose; e superando il corredo genetico, possiamo conoscere stili e modi di vestire frutto di culture e tradizioni con cui una volta sarebbe stato difficile entrare in contatto. Detto in poche parole: ora possiamo riconoscerci, possiamo trovarci in luoghi lontani. E se abbiamo questa enorme possibilità è anche perché la rivoluzione non è solo nel contenuto, ma anche nella modalità. Internet e i social ci permettono di raccontarci senza filtri, non solo attraverso le nostre parole ma anche attraverso il nostro corpo. Non siamo più oggetto, ma possiamo - se lo desideriamo - farci soggetto. Decidere cosa mostrare, come narrarci. Scegliere a cosa dare peso e a cosa no. Stabilire cosa del nostro corpo troviamo sensuale, bello, attraente, e diventare le nostre registe, imporre la nostra visione e non adeguarci a quella altrui.

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Ella Uzan/Getty Images/#ShowUs

Possiamo decidere di scrivere da sole la nostra storia. Autrici di noi stesse. In un mondo che ci ha voluto muse per millenni, creature da osservare e cantare, ora possiamo dire la nostra su quello che siamo e sui panni che vogliamo vestire. E questo significa anche che possiamo leggere le storie scritte delle altre, e non sentirci sole. Fare l’appello e vedere migliaia di mani alzate. Siamo presenti. Il nostro corpo smette di essere l’immagine di un errore nell’esatto istante in cui apriamo le porte della gabbia in cui crediamo debba stare costretto e gli offriamo la possibilità di guardarsi attorno. Non c’è più solo una direzione.

Le foto in questo articolo fanno parte del progetto #ShowUs di Getty Images, Dove e Girlgaze, una galleria con oltre 5mila scatti (realizzati dalle fotografe dell’agenzia creativa Girlgaze) per infrangere nei media e nella pubblicità «gli stereotipi della bellezza, mostrando donne, e chiunque non si identifichi nei rigidi schemi di genere, esattamente come sono, non come gli altri vorrebbero che fossero». Nel progetto sono state coinvolte 179 donne e ragazze in 39 paesi. Lo scopo: mostrare tutte le declinazioni e la varietà del femminile.

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L’autrice di questo articolo, Carolina Capria. Nata a Cosenza nel 1980, da più di dieci anni scrive libri per ragazzi e sceneggiature televisive. Parla dei libri che ama su Facebook e instagram, attraverso i profili L’ha scritto una femmina.
la circonferenza di una nuvola carolina capriapinterest
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Esce il 9 maggio il primo romanzo (per adulti) di Carolina Capria: La circonferenza di una nuvola (HarperCollins, 16 euro). Parla di ragazze, disturbi alimentari, momenti dolorosi e rinascite.