La prima volta che sono entrata nel reparto del Sant’Anna di Torino dedicato all’interruzione volontaria di gravidanza, avevo 21 anni. Ero lì per accompagnare una mia amica. Alle nostre madri avevamo detto che saremmo andate a Genova, perché proprio Genova non lo so.

Abbiamo varcato la porta per mano, poi lei ha accelerato il passo, si è seduta in sala d’attesa. Secondo te quando ci metteremo? Ho visto una gonna troppo bella in quel negozio in Piazza Vittorio, se finiamo presto mi accompagni a prenderla? ha detto.

L’hanno chiamata: al posto del suo nome un numero. La mia amica 47 si è accomodata in un letto sistemato accanto altri venti letti e mi ha sorriso; Giuli, vorrei tanto una siga adesso. E poi un’infermiera mi ha detto che non potevo rimanere lì.

32; manca ancora un sacco.

In quel tempo passato a aspettare il suo intervento - non ricordo oggi le ore esatte, potrei giurare che fossero giorni ma so che mi sbaglierei - ho cercato di mettere insieme le parole migliori da rivolgerle una volta che saremmo uscite da quel posto.

Non sapevo come si sarebbe sentita, ma sapevo con convinzione che non sarebbe stata bene perché quello che stava facendo, mi ripetevo, l’avrebbe cambiata per sempre.

Me lo avevano confermato la signora all’entrata che le aveva fatto firmare i documenti, il dottore che l’aveva visitata, l’infermiera che le aveva assegnato il posto e ci aveva indicato il reparto: tutti la guardavano con la stessa espressione, “Povera piccola, un giorno te ne pentirai”.

E quella era la domanda che continuavo a farmi anche io, se ne sarebbe pentita?

Avevamo scoperto insieme della sua gravidanza e insieme eravamo andate dalla ginecologa. Aveva deciso di non dire nulla al ragazzo, un tipo conosciuto qualche mese prima.

È una cosa mia, mi aveva detto, lui si metterebbe a fare un sacco di storie, mi chiamerebbe mille volte al giorno per sapere se sto bene, non ho voglia. Decido io.

E credevo avesse ragione. Lei non voleva quel bambino, questo era sufficiente per scegliere di non averlo. Cosa serve, in fondo, se non la decisione di chi dovrà metterlo al mondo?

Ah, giusto, qualcuno direbbe che sono tutti figli di Dio.

27; ma perché non le chiamano in ordine?

Dalla mia sedia - di quelle con lo schienale pieghevole che torna in posizione appena ti alzi - non riuscivo a smettere di fissare i piedi coperti dai calzini e i mezzi volti che scorgevo dall’entrata della camera in cui erano riunite quelle donne stese nei letti in attesa di abortire.

Mi avevo raccontato che era un mio diritto. Mia madre mi aveva specificato più volte che nel caso mi fosse accaduto e non l’avessi voluto, sarebbe stata la prima cosa da fare, senza esitazioni. Nessuno però, neppure la mia famiglia progressista, mi aveva mai spiegato la praticità della questione. Quale fosse l’ospedale migliore, cosa sarebbe successo una volta arrivata lì, quanto sarebbe durato, avrebbe fatto più o meno male di un tatuaggio? come mi sarei sentita dopo, se avrei potuto fare sesso subito, se avrei avuto mal di pancia o mal di testa. Era informazioni che mi sarebbero servite per aiutare la mia amica ma io non sapevo niente dell’aborto, sapevo solo che potevo farlo e che la mia famiglia mi sarebbe stata accanto.

Non poco, non abbastanza.

Perché mi avevano insegnato che c’era un possibilità, che quella possibilità non era una colpa, ma allo stesso tempo mi avevano detto che sarebbe stato un trauma. Ecco cosa mi aspettavo dalla mia amica, la tragedia. Negli anni, da sola, ho dovuto scardinare la convinzione che decidere consapevolmente di non avere un figlio faccia stare male e che stare male sia l’unico modo, maturo, di assumersi una responsabilità. Nessuno mi aveva detto che si poteva fare senza ripercussioni, che per alcune semplicemente è alzarsi la mattina, andare in ospedale, uscire sicuramente un po’ scosse ma uguali a prima.

40; fanno veloce!

Non avevo ancora fumato, mi ero detta che se lei non poteva farlo dovevo resistere anche io, per amicizia, solidarietà o molto più probabilmente perché volevo guardarla negli occhi nell’esatto attimo che avrebbe preceduto l’intervento. Volevo capire.

Accanto a me c’era un signore, aveva forse 50 anni, si teneva la testa tra le mani, lo sguardo fisso per terra. Sua figlia, una bimba abbastanza grande da parlare e saltellare per tutto il reparto, continuava a ripetere che si stava annoiando.

Che fai papà?

Prego.

Non saprei dire oggi perché quella risposta mi riempì di rabbia, non conoscevo nulla della storia di quella famiglia. Ma con l’arroganza tipica di chi è appena uscito dall’adolescenza e con la convinzione assoluta - e sbagliata - che la mia amica stesse soffrendo più di chiunque altro in quella sala, anche io iniziai, a mio modo, da atea, a pregare.

Non avete idea, mi sorpresi a dire a voce alta. E poi, spero, continuai nella mia testa.

Non avete idea di come una donna possa vivere non solo la maternità ma la scelta che la precede.

Non avete idea di cosa significhi nascere con un corpo che può mettere al mondo delle vite e trovarsi, da una certa età in poi, con una società che si aspetta qualcosa da te, con un uomo, con una madre, una zia.

Non sapete niente del terrore che alcune di noi provano nell’avere quella possibilità a disposizione e nel pensare che non ne vorranno usufruire. Di quanto faccia paura porsi quella domanda - sarò madre? - troppo presto o troppo tardi.

46; la prossima sarà lei?

Uno Stato che si arroga il diritto di scegliere per l’esistenza di una donna, definisce una cultura in cui il corpo di una persona, le sue decisioni di vita, sono subordinate a una legge più alta. Di conseguenza: la donna non è in grado di decidere per se stessa, la donna ha bisogno del governo per capire se essere madre o meno. La donna può scegliere di non fare sesso - e sappiamo benissimo che non sempre può sceglierlo - ma una volta che, lei e lei soltanto, non è stata abbastanza attenta allora non può più tornare indietro.

Sarebbe sufficiente questo per comprendere quanto sia tutto raccapricciante, ma le implicazioni sono ugualmente tragiche.

Nasciamo con una possibilità e con un terrore: rimanere incinte.

Ci sviluppiamo con un desiderio e con un terrore: rimanere incinte.

Cresciamo con una speranza e con un rifiuto: rimanere incinte.

Veniamo definite come donne e giudicate per una scelta: rimanere incinte.

Diventare madri permane, anche qui in Italia che non è mica l’Alabama, come “La scelta più importante nella vita di una donna”, non ne esistono di più grandi. Non lo sono la carriera che si decide di intraprendere, la casa che si compra, il Paese in cui si va a vivere, il partner con cui si decide di andare a letto.

Abbiamo lottato, abbiamo ottenuto, ma adesso, e la governatrice Kay Ivey ce l’ha dimostrato, siamo ancora quelle che quando vi va, con un sorriso, potreste portare a letto. Ancora quelle che, quando vi va, possono mettere al mondo un figlio.

Certo qualcuno si chiede quando va a noi, per fortuna, ma solo qualcuno non è sufficiente.

É necessario distaccare la figura della donna dalla figura di madre, così come ogni uomo non è visto come un padre.

Se nel 2010, quando io e la mia amica avevamo 21 anni, una legge avesse detto che non poteva abortire, lei oggi avrebbe un figlio e non si sarebbe mai comprata quella gonna. E vi assicuro che quella gonna le stava benissimo e che era importante. Come è giusto che lo sia per una ragazza di 21 anni. E di 33, e di 40. Importante una gonna e non un figlio. 3,2,1 giudicate pure.