GUARDAMI! Non è quello che chiediamo tutti, usando il corpo e la sua immagine per parlare di noi e la relazione con tutto il resto? Gli artisti lo fanno da sempre, spogliando se stessi e l’altro, mettendo a nudo ben più del corpo, trasformandolo nell’arte di rappresentare la nostra relazione con il mondo. Sedendo a tavola con il rituale dell’essere e dell’apparire, i tableaux vivants messi in scena della genovese Vanessa Beecroft, lasciano dialogare anche il glamour con la storia della dimora sabauda del Castello di Rivoli, le dinamiche senza tempo con quelle del contemporaneo (il giorno precedente la riunione del G8 a Genova). Parliamo di un paesaggio carnale e metaforico, capace di riconfigurare il concetto d'individuo, identità e genere. Materia viva, per ridisegnare la forma stessa del paesaggio umano, quando il corpo di una moltitudine d'individui, fotografata in tutto il mondo dalle performance nudiste di Spencer Tunick, si libera di distanze, differenze e accuse di atti osceni, avventurandosi con Greenpeace fin sul ghiacciaio svizzero di Aletsch e mette a nudo (anche) lo scioglimento dei ghiacci. In sintesi, la materia complessa e vitale inquadrata da LOOK AT ME! Il Corpo nell’Arte dagli anni '50 a oggi, alla Fondazione Ghisla Art Collection di Locarno (fino al 5 gennaio 2020). Una collettiva di artisti visivi che partono dal corpo per guardare oltre, dalla crisi d’identità del contemporaneo (s)mascherata da Cindy Sherman, a quella sviscerata dalle performance relazionali di Marina Abramovic.
Dalle rive del Lago Maggiore al confronto diretto con lo spettatore, il percorso espositivo curato da Annamaria Maggi e Angela Madesani, parte dalla relazione tra corpo femminile e maschile per allontanarsi dal riduttivo concetto di genere che va un po' strettino anche alle donne di Allah armate e svelate da Shirin Neshat.
Le stesse relazioni sessuali (eros e thanatos), messe a nudo da Andres Serrano si spingono oltre le differenze di genere e generazionali, con il maturo Antonio abbracciato dalla giovane Ulrike, quanto sembra fare Nan Goldin con il ritratto dei suoi anziani genitori che si baciano sul letto. Impietoso e tenerissimo, profondamente onesto come tutto il corpo della sua ballata di vita che continua a trasformare in opera d’arte.
Le disordinate geometrie interiori degli autoritratti di Francesca Woodman e quelle provocatoriamente audaci di corpi e organi maschili messi a nudo da Robert Mapplethorpe, guardano oltre il genere che rappresentano, rendendo la propria identità oggetto e soggetto di una narrazione potenzialmente infinita. Il corpo connette individui di luoghi e tempi diversi, come nell'ultima opera dell'artista sudcoreana Kimsooj. Unisce anche l'uomo alla terra, nelle opere dell'acclamata artista cubano-americana Ana Mendieta.
Per questa ragione il percorso espositivo si apre al dialogo di opere e artisti molto diversi, che usano in modo differente fotografia, video e performance, approfittando delle differenze che non mancano alle similitudini e delle distanze mozzate da illuminanti vicinanze. Una fotografia di grandi dimensioni scattata da Irving Penn nel 1949-1950 al lato b femminile, apre idealmente il viaggio, offrendo allo sguardo forme e dinamiche completamente stravolte da quello peloso maschile dell’inglese John Coplans, protagonista di ogni scatto negli anni novanta, insieme ai segni del passare del tempo.
Il corpo del desiderio fa capriole con passioni e ossessioni, approfittando del dialogo tra l'erotismo provocatorio della fotografa francese Bettina Rheims e quello del giapponese Nobuyoshi Araki. I paesaggi di corpi del fotografo giapponese Izima Kaoru fanno qualcosa di analogo mettendo in scena sublimi fantasie di donne/modelle vestite a morte (con abiti del desiderio firmati Dior). Fabio Mauri continua a esplorare le dinamiche d'ideologia e potere, affidate all'immagine forte e radicale del corpo della sua storica performance, in cui una giovane ragazza ebrea si avvicina nuda a uno specchio e compone con i propri capelli una Stella di David.
Le ferite del corpo fatto a pezzi dai collage contemporanei di Peter Welz, continuano a infrangere il silenzio e stabilire un dialogo con l’altro e con le sequenze fotografiche del corpo dell'arte aperto da Gina Pane negli anni settanta. Perché "Se apro il mio corpo affinché voi possiate guardarci il vostro sangue, è per amore vostro: l’altro" (Gina Pane in Lettera a uno/a sconosciuto/1974).
Il corpo è aperto, il sangue gronda e il dialogo arriva a noi pieno di stimoli, mentre Luigi Ontani presta il suo corpo al viaggio metaforico in tutte le identità possibili, Vito Acconci alla sparizione dell'io, mentre Urs Lüthi continua a interpretare la storia della condizione umana. Dennis Oppenheim ne usa energia e trasformazione per sfidare limiti e previsioni, mentre David LaChapelle non conta più le vittime del nostro culto del corpo e del successo, muovendosi con agilità tra sacro e profano.
Forse ho dimenticato qualcuno e purtroppo, appena sfiorato progetti complessi che meriterebbero ben altri approfondimenti, ma il corpo continua a dire tutto, perché che siamo uguali ma differenti, come l'uomo nero e quello bianco che salutano ogni spettatore della mostra, emergendo dal mare digitale dei ritratti fotografici di Stefano Scheda. Nudi come appena venuti al mondo, o arrivati da uno lontano. Il riferimento alle nostre rotte migranti è voluto, come tutto il resto, perché questo corpo dell'arte continua a rappresentarci.