Angoscia, colpa, sconforto, rammarico. Sollievo. Le 667 donne a cui è stato chiesto di dare un nome all’istante che ha preceduto il loro aborto hanno pronunciato questi termini. La maggioranza, circa il 95 per cento, ha ripetuto la stessa parola "sollievo" che può aprire letture molto diverse tra loro. Condotto dalla rivista accademica a stelle e strisce, Social Science & Medicine, lo studio durato cinque anni attraverso 21 degli Stati americani, ha interpellato centinaia di quelle che sarebbero potute essere mamme. E che, invece, hanno deciso di non esserlo interrompendo una gravidanza non desiderata.

La compagna di scrivania, la bar lady dietro il bancone, l’amministratore delegato, il capotreno, qui fuori è pieno di donne e uomini, single e non, eterosessuali e non, giovani e non, che combattono ogni giorno la loro battaglia con una maternità o paternità che non arriva e che, in molti casi, non arriverà mai. E che prova dolore, talvolta misto a rabbia, nel sentire le storie di chi ha deciso di abortire. Di non mettere al mondo un figlio. Quel figlio che sarebbe potuto essere pure loro.

Obiettori di coscienza, conservatori estremi(sti), politici con la mentalità rimasta al 21 maggio 1978, il giorno prima che venisse promulgata “la 194”, la legge della Repubblica Italiana che ha depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all’aborto… Dietro chi scuote la testa di fronte alle testimonianze delle donne che interrompono una gravidanza, non ci sono solo loro. Uomini e donne che cataloghiamo in queste categorie: provare ostilità, disagio, imbarazzo nell’ascoltare storie di questo tipo è qualcosa che, di primo acchito, probabilmente tocca un po’ tutti. Non siamo macchine programmate per condividere senza la minima obiezione i pensieri e le scelte altrui. E dove mettiamo quel "non lo sai veramente finché non lo provi sulla tua pelle" usato in savane digitali abitate da leoni da tastiera? Forse in quella frase vi è non LA verità, ma UNA verità sicuramente.

Per tornare all’obiettivo dei ricercatori della University of California di San Francisco durato esattamente 5 anni, la liberazione, la felicità, la consolazione sono le sensazioni che, piacciano o meno, sono state registrate dallo studio condotto direttamente tra le stanze delle cliniche passate a setaccio e, in un secondo momento, nelle case delle donne che avevano abortito qualche mese prima. "Le donne abortiscono per divertimento” aveva pronunciato solo la scorsa primavera un politico americano provocando un (fisiologico) sollevamento popolare di massa. “Peccato” per il membro della Camera dei Rappresentanti del Wisconsin, Paul Ryan, l’autore di queste parole, ma nessuna delle donne intervistate - e con buona probabilità nessuna delle donne al mondo che ha scelto l’aborto - ha mai accostato la propria situazione a un momento di particolare ilarità o, appunto, divertimento. Il sollievo, appartiene a un’altra sfera di emozioni, collegate a infinite sfere di motivazioni.

“Fino a due anni dopo aver subito un’interruzione di gravidanza, si prova un mix di emozioni riconducibili tanto alla sfera negativa quanto a quella positiva, dalla colpa al conforto”, chiosa Corinne Rocca, la professoressa e pioniera dello studio pubblicato su Social Science & Medicine. Cosa succede dopo quei due anni di guerra e pace con il proprio io? “Le voci intestine in contrasto si attenuano progressivamente, finché a prevalere è un senso di giustizia e benessere, nella maggior parte dei casi presi in esame”, continua Rocca intervistata dalla penna del TheGuardian.com, Lauren Aratani. Se ci spostiamo di qualche fuso orario, nello specifico quello che fa rima con UTC+1, il nostro. Sul balcone più famoso di Roma, a inizio anno, si è gridato ancora al genocidio di fronte alle statistiche di aborto in Italia nel 2019. Ottantamila interruzioni volontarie di gravidanza è la media annuale, praticamente nove ogni ora, numeri in grado di cancellare in dodici mesi una città delle dimensioni di Treviso. Senza contare poi gli aborti “non censiti”. “Per anni, i sostenitori della legge anti-aborto hanno giustificato la protezione di tutta quella giurisprudenza e legislazione che scoraggia le donne a interrompere una gravidanza, proprio ponendo l’accento sui casi di depressione post aborto che si presentavano in certi casi. Che affligge solo un 5%, però”. Una percentuale non di certo da snobbare o trascurare, meritiamo e abbiamo tutti diritto a supporto psicologico e cure mediche di cui abbiamo bisogno. Ma che non si può porre alla base di leggi che vieteranno a un essere umano di compiere o non compiere una scelta, checché se ne dica, umana. E di provare sollievo.