«Il naso è il primo centimetro del nostro futuro. Sta per tagliare un traguardo che si sposta alla stessa velocità: di lì la sua tragedia e la sua speranza. Avanguardia svincolata, il naso è in anticipo sui tempi».

È successo durante una chiamata Zoom qualsiasi. Mi sono visto riflesso sullo schermo e ho pensato: ma chi è questo? Sono davvero io? Mi sono distratto dalla conversazione che stavo provando a seguire (scusa, interlocutore, se stai leggendo, poi mi sono concentrato di nuovo, non ho perso niente), l'ho fatto per aggiustare l'angolazione dello schermo e provare a riconoscermi, perché a volte capita, un grado più giù e sembri un altro. Non ha funzionato, ovunque posizionassi lo schermo del portatile, c'era un estraneo che si spacciava per me. Era la mia versione dopo un anno di lockdown intermittenti, dentro quello schermo sul quale ho imparato a guardarmi più spesso che in uno specchio e sul quale divento ogni settimana più irreale, un sinonimo di me. Sono stato fortunato, finora: non ho avuto il Covid, non so nemmeno come ho fatto a schivarlo, vivendo a Milano. Quindi bene. Ma questo non è il corpo che avevo un anno fa.

«Da cosa fugge la schiena? La sua risposta è stringersi nelle spalle. E, con scultorea falsa modestia, si ritira dietro i tratti che ci identificano. Nessuna schiena si accontenta del semplice guardate chi sono: preferisce l'insidioso ricordati chi sei stato».

Ci sono delle motivazioni al lento scivolamento dei nostri corpi pandemici, la caduta che alla fine ci rende estranei a noi stessi, la mia faccia su Zoom la faccia di uno che non conosco. C'è già una certa letteratura scientifica su questo, sulle conseguenze di dieta nervosa, eccesso di alcolici, brusca interruzione delle routine fisiche, immobilità, abuso di luce blu degli schermi, ansia, ansia a ogni respiro. Schiene doloranti, dolori cervicali, la pelle affaticata da mascherine e disinfettanti, perfino problemi ai denti e alla vista. Amanda Mull su The Atlantic lo ha sintetizzato così: è come aver passato un anno raggomitolati in economy su un volo intercontinentale, uno spazio chiuso nel quale non ti è chiesto di fare niente, dove ogni sforzo è superfluo e anzi sconsigliato. Aggiungo: un anno intero dentro un volo intercontinentale che è stata un'unica, grande turbolenza. Il nostro corpo immobile dentro qualcosa che non smette di tremare.

«Le mani danno o prendono? Custodiscono o usurpano? Raggiungono tutto o a tutto si aggrappano? Ogni cosa vi trova il proprio posto o lo perde? Vogliono ordinare il mondo o piuttosto contrarre il suo disordine? Perpetrare catture o scambi?»

Sono tutte cose vere: l'immobilità non è un'esperienza riposante, il nostro software biologico è ancora quello dei cacciatori-raccoglitori di 10mila anni fa. Il lockdown è un assurdo evolutivo, è lottare contro la nostra natura e perdere ogni giorno, accumulare sconfitte finché non sai più come contarle. Ma c'è anche qualcos'altro. Credo che alla nostra anatomia e ai nostri corpi manchino gli estranei, gli altri in generale. Il nostro è un corpo sociale, esiste nello scambio e nel conflitto di essere visti, cercati, trovati, toccati, è così che trova un significato,

essere urtati dentro un bar, trovarsi qualcuno addosso a un concerto, ballare con chi non si conosce

Non sono solo i rapporti sessuali e il desiderio improvviso, ma tutte le interazioni, perché anche la somma delle più casuali aiuta a riconoscerci, a sapere che forma abbiamo. Un po' di tempo fa, scendendo da un treno, ho visto una signora in difficoltà con le valigie. Ero indeciso se aiutarla, quale fosse il protocollo sanitaria giusto, glielo ho proposto da una distanza corretta, lei ha accettato dalla stessa distanza corretta, abbiamo camminato lontani ma nello stesso spazio, fianco a fianco. Lei andava piano, c'è stato tempo per raccontarci delle cose. Quando siamo arrivati al taxi, ha insistito per regalarmi un limone del suo orto, poi nella foga della gentilezza sono diventati dieci, dieci limoni calabresi. Mi ha detto il suo nome e cognome, lo ha scandito due volte e mi ha chiesto di ricordare il suo indirizzo di casa, se mai avessi avuto bisogno di lei. Lo ricordo ancora. La prima cosa che ho pensato, guardando quei limoni, era che mi mancavano gli estranei, il senso che danno alla nostra vita le persone che riempiono lo spazio e poi spariscono. La seconda è che era stata una giornata lunga, ma quei quindici minuti mi avevano fatto sentire bene. Riflesso nel finestrino del treno successivo, mi potevo riconoscere, qualcuno aveva visto la mia faccia, la mia faccia vera.

«Più che ricoprirlo, la pelle consegna il corpo. Lo espone e insieme lo protegge. Niente è più personale della pelle e, tuttavia, conferma l'apparenza altrui. Motore ipersensibile, colleziona aggressioni. Promuove le carezze. E sembra condannare a esagerare. Le si attribuiscono indicativamente quattro chilogrammi e due metri quadrati d'infinito».

In questi giorni ho letto un piccolo libro intitolato Anatomia sensibile (Sur), dello scrittore argentino Andrés Neuman. È stato scritto prima della pandemia, ma la creatività è sempre anche premonizione, è per questo che leggiamo, e così Anatomia sensibile è il miglior libro da leggere durante un lungo confinamento, sembra scritto apposta. È una raccolta di brevissimi saggi sul corpo umano, uno per ogni parte di noi, la testa, la pelle, i piedi, le mani, la vagina, il pene, la pancia, le caviglie e così via. È da questo libro di Neuman che vengono le citazioni di questo articolo. Ogni parte di noi viene esplorata come una lenta perquisizione, una perquisizione che è un esercizio, ci ricorda che il nostro corpo è reale e bellissimo, che esiste nel mondo, e che nel mondo ci sono gli altri, e che non solo il nostro corpo è la via per arrivare a loro, ma sono anche loro la via per arrivare al nostro corpo, per rendercene conto, per conoscerlo. Gli altri, con cui facciamo l'amore o da cui riceviamo una busta piena di limoni, sono il nostro confine esterno e senza quel confine alla fine dimentichiamo tutto e finisce che poi dopo mesi così non mi riconosco più su Zoom. Passerà tutto questo, a chi ha paura di volare si ricorda sempre che le turbolenze non fanno cadere gli aerei, che l'aria è vuota solo in apparenza, che è piena di dossi e scosse, e così pure la vita. Questo aereo a un certo punto atterra, noi usciamo, ci prendiamo il bagaglio e se lo abbiamo perso lo accettiamo, e torniamo dentro il mondo, dove qualcuno di cui poco prima non sapevamo il nome ci toccherà e toccandoci ci darà una mappa per non confondere più la nostra faccia con quella di un estraneo.