Negli Stati Uniti chi fa il grande passo e decide di abbandonare la vita della metropoli per lavorare in connessione remota ultimamente sceglie il Pacific Northwest, immaginando grandi spazi aperti, una vita tranquilla e la certezza di poter fare sport immersi natura. Arriva presto però il momento di fare i conti con la dura realtà: saranno anche luoghi che si definiscono pacifici, ma inclusivi non lo sono mai stati, con tutte le regole non dette che si svelano poco a poco e sorprendono i nuovi arrivati, come l'ossessione in puro spirito da gatekeeper di tenere segreti i migliori sentieri con le viste più mozzafiato per evitare affollamenti, sbandierati sui social ma mai geolocalizzati (e non chiedete, non vi risponderanno). Rachael Gareri ha raccontato alla rivista femminile Ms. Mayhem della sua prima camminata all'aperto dopo essersi trasferita in Colorado tre anni fa - tecnicamente non nel Pacific Northwest, ma vicini per un soffio - e di come l'esperienza sia stata miserabile, avendo trascorso tutto il tempo a pensare al suo respiro pesante e a lasciare più spazio libero possibile sul percorso. Tutto perché, nella sua testa, non voleva che gli altri la giudicassero fuori allenamento o che, peggio ancora, potessero mettere in discussione la sua presenza all'aperto a fare attività fisica. Quando Gareri ha capito che il Colorado, dove tutti sembrano focalizzati sulla loro salute, ha una comunità che può intimidire una persona grassa, ha deciso di non commiserarsi e contrattaccare. All'inizio di agosto ha organizzato attraverso il gruppo Facebook Colorado Girl Gang un evento per la serie l'unione-fa-la-forza: fare una camminata, fermarsi ogni tanto per annusare i fiori e riprendere il fiato e farsi qualche foto sexy. Le reazioni sono state molte e positive, così quello che doveva essere un singolo incontro ora è un gruppo con più di 200 iscritti chiamato Fat Babes in the Wild, uno spazio queer-friendly aperto a persone di tutte le taglie che vogliono celebrare la body positivity senza preoccupazioni.

La fatphobia è una discriminazione sistematica delle persone grasse profondamente radicata nella società che non si limita ai semplici commenti non richiesti e insulti sul proprio corpo, ma diventa una forma di discriminazione. Sabrina String, professore di Sociologia alla University of California, Irvine, nel libro Fearing the Black Body: The Racial Origins of Fat Phobia (NYU Press) ha analizzato il problema nel dettaglio dimostrando che l’ossessione e la celebrazione della magrezza negli Stati Uniti compare già nel XIX secolo, quando si era diffusa l’idea che le pie donne protestanti dovessero mangiare il meno possibile per esibire pubblicamente la loro cristianità e superiorità razziale, in opposizione alle schiave nere considerate voluttuose e quindi inclini agli eccessi, sessuali o di gola. Nella cultura americana la fatphobia, quando si tratta di fitness, salute e spazi aperti, è più diffusa di quanto si pensi. Non solo le persone poco in forma si sentono inadeguate e nel posto sbagliato, ma spesso sono vittime dei pregiudizi di medici e operatori sanitari che tendono a sottovalutare i sintomi dei pazienti grassi e a giudicarli come semplice conseguenza del peso, spesso arrivando a diagnosi sbagliate. L'impressione è che prima si debba perdere peso per poi fare sport all'aperto, quando invece test e ricerche degli ultimi anni hanno dimostrato che persone con un alto indice di massa corporea ma che fanno molta attività fisica non sono più a rischio di malattie cardiache rispetto a persone altrettanto attive ma di peso standard (Impact of physical activity on the association of overweight and obesity with cardiovascular disease: The Rotterdam Study, 2017). Anche se String ha ampiamente dimostrato come l'idea di “un corpo magro = corpo sano” abbia messo radici per motivi religiosi e razziali 100 anni prima che i medici iniziassero a promuovere la perdita di peso per motivi di salute, la gran parte delle ricerche sul tema giustifica queste scoperte con il termine the obesity paradox, confermando ancora una volta che lo stigma sul peso corporeo è presente ovunque, anche nella letteratura scientifica.

E se ci fossero donne dalle taglie forti in ruoli di leadership nell'industria del fitness?

Nella speranza che più medici smettano di prescrivere diete e introducano altri approcci, ben vengano i gruppi come Fat Babes in the Wild, che con il loro attivismo dal basso stimolano la discussione sul tema, ma soprattutto convincono le persone a uscire di casa. Louise Green nel libro Be Fit Girl: Embrace the Body You Have (Greystone Books), che accusa l'industria del fitness di ignorare le esigenze delle donne plus-size e di privarle dell'opportunità di migliorare la loro salute e forma fisica, propone invece una cambiamento a monte domandandosi come sarebbe diversa la situazione se ci fossero donne dalle taglie forti in ruoli di leadership nell'industria del fitness.

Anche in Italia si parla di fatphobia da tempo e una svolta importante si è vista nel 2018, quando è iniziato il progetto @belledifaccia su Instagram, ideato da Chiara Meloni e Mara Mibelli, con lo scopo di fare chiarezza sul movimento body positive e sulla fat acceptance. Il successo online ha portato alla pubblicazione di Belle di faccia. Tecniche per ribellarsi a un mondo grassofobico (Mondadori) e alla fondazione di un'associazione che vuole rimettere il corpo grasso al centro del discorso sulla body positivity ed avviare in Italia una conversazione su questi temi ancora poco trattati anche per mancanza di una letteratura di riferimento. Molto probabilmente Rachael Gareri, se non fosse impegnata a passeggiare liberamente sulle belle montagne del Colorado con le sue nuove complici, approverebbe quel che sta succedendo qui.