Giornata internazionale contro l'omofobia e la transfobia L'abbiamo conosciuta, intervistata, apprezzata per il coraggio e la forza, ma anche per la sua ironia: è una delle lettrici che ci ha raccontato la sua storia (pubblicata sul numero di Gennaio di Marie Claire). Ve la riproponiamo in occasione del dayagainsthomophobia, celebrato come ogni anno il 17 maggio.

«Prof, come sta bene con la gonna. Sinceramente, un po’ ce ne eravamo già accorti! A che pagina sono le Catilinarie?...». Quando all’inizio dell’anno scolastico mi sono presentata in tailleur e calze velate anziché in giacca e cravatta, i ragazzi di quarta B non hanno fatto una piega. O meglio, mi hanno accolto col rumore e il caos di sempre, accalcandosi alla cattedra per salutarmi e squadrarmi ben bene, per poi tornare ai banchi in ordine sparso, risucchiati da altri mille interessi. Tutto qui?, ho pensato dopo aver raccontato la mia metamorfosi. Per un’estate intera avevo tremato pensando a quel momento, a lungo ponderato con la preside e i colleghi del liceo. A giugno avevo salutato i miei ragazzi come professore di latino, a settembre mi ripresentavo come professoressa. Mi avrebbero accettato? Li avrei infastiditi? Alla mia età avevo ancora il diritto di propormi come una persona alla faticosa conquista dell’identità, quando rimproveriamo continuamente ai ragazzi di essere immaturi?

Mi chiamo Manuela Ceriani, ho 39 anni, ma per quanto mi riguarda sono nata il 15 novembre del 2005. È stata quella la prima volta in cui ho trovato il coraggio di partecipare a un meeting vestita e pettinata come mi sentivo da sempre: una donna. Ma sulla carta d’identità c’era scritto Nicola. Fino a ieri è stato quello il mio volto pubblico a scuola, in famiglia, con i conoscenti. Tacchi e parrucche li tenevo sotto chiave. Vengo da un paese fuori Roma, da una famiglia impegnata da sempre nell’Azione cattolica, dove io stessa ho militato per anni: non avrei mai potuto mettere i miei in imbarazzo. E poi non era chiaro nemmeno a me stessa cosa volessi davvero. Ero confusa.

Già a 7 anni avevo cominciato a capire che qualcosa non tornava, preferivo la Barbie a Big Jim. Ma non avevo idea di cosa mi stesse accadendo. Gli stereotipi di genere non mi aiutavano: amavo il calcio e il basket ma odiavo i rudi scherzi dello spogliatoio. Crescevo pensando di essere il solito maschio sfigato, rassicurato dalla presenza femminile. Il mio primo reggiseno l’ho rubato alla mamma a 13 anni e indossato sotto il pigiama. Ricordo perfettamente la vergogna, il senso di colpa, ma anche l’insopprimibile felicità. Eppure negavo. Negavo a me stessa quelle pulsioni discordanti, mi maledicevo per il mio animo gentile, per la sensibilità esasperata. Davo la colpa all’adolescenza, agli ormoni, al cuore in subbuglio. Per tanti anni ho cercato di corrispondere a quello che il mondo mi aveva educato a essere: un maschio. Mi ero iscritta in palestra, mi ero fatta crescere il pizzetto.

Con le ragazze era un disastro. E non è che non ci avessi provato. La sintonia emotiva era totale, ma quando si arrivava all’intimità proprio non ce la facevo. E allora tiravo fuori certi atteggiamenti da macho che stridevano con la mia mitezza. Mi mollavano nel giro di qualche mese. Intanto mi ero iscritta alla Sapienza, Lettere classiche. Davo esami uno dopo l’altro, uscivo poco. Ormai la totale distonia tra il mio corpo e la mia anima mi era chiara, i libri mi avevano dato gli strumenti per capire. Ma non riuscivo ad affrontare il problema alla radice. Semplicemente, restavo chiusa in casa. Avevo scoperto la Rete, vivevo la mia esistenza perfetta su Second Life: lì ero una ragazza corteggiatissima, piena di calze, scollature, tacchi, sempre pronta a uscire, ballare, fare sesso. Quando non sai bene chi sei, l’unica donna che riesci a immaginarti è una specie di iperbole, una bomba di femminilità, anche un po’ zoccola.

Poi era cominciata la vita precaria dell’insegnamento in provincia. Giornate faticose, tutte casa e scuola. Ero depressa, il caos che avevo dentro mi stava uccidendo. Forse per questo avevo trovato il coraggio di rivolgermi al centro Saifip del San Camillo di Roma, un punto di riferimento per le persone come me. Lo psicologo era stato chiaro: niente passi avventati. Ciò che gli era parso subito evidente è che il mio malessere era dovuto anche all’astinenza: a 29 anni praticamente non avevo mai fatto sesso. D’altronde non avrei saputo con chi: mi innamoravo delle donne ma le etero non mi volevano, le lesbiche nemmeno. I gay non mi piacevano. Scrivevo blog strazianti, da quindicenne alla ricerca dell’amore, ma di anni ne avevo quasi trenta.

Finché in rete avevo conosciuto una comunità dove le t-girl (sì, le trans) potevano conoscersi, condividere affanni e trionfi. E anche imparare come muoversi, dove fare shopping. Tante volte le ragazze mi avevano invitato a partecipare ai loro meeting, ma l’idea di uscire allo scoperto mi terrorizzava. Tuttavia quel novembre l’appuntamento era vicino a Roma. La tentazione di capire, di provare come ci si sente “en femme” - vestite da donna - aveva vinto. Non avevo fatto però i conti con la realtà: non mi ero mai depilata, non possedevo abiti femminili, non avevo la più pallida idea di come usare un rossetto. Stavo per rinunciare, quando in chat si era materializzata Martina, pronta a dare una mano a chi avesse problemi di look. Le mandai una foto. Il giorno del raduno mi aspettava in albergo, per me aveva scelto una gonna scura, calze lavorate, camicia bianca, una parrucca a caschetto - non ero certo una da stiletto e calze a rete - ma soprattutto, aveva fatto miracoli col makeup. La nuova me si materializzò poco dopo davanti allo specchio: una ragazza fine e minuta, con gambe sottili valorizzate dai tacchi. «Sono davvero io?». Come uomo ero sempre stato insignificante, come donna ero davvero carina, mi piacevo da matti. Ero commossa, confusa. Tutte le lacrime trattenute in quegli anni vennero fuori in quella stanza d’albergo. Ero nata una seconda volta. Un punto di non ritorno.

Poco dopo ho incontrato un uomo che mi ha chiamato piccola principessa. Per la prima volta ho fatto davvero l’amore. Ma il percorso successivo non è stato facile. Per anni ho continuato a mantenere in pubblico un’identità maschile. Mi sono buttata nel lavoro, trasferendomi in Toscana e poi nella provincia di Asti, dove avevo vinto un concorso. Ho dovuto affrontare la morte di mio padre, confidare a mia madre cosa stava accadendo - per lei un nuovo lutto, anche se un attimo dopo aveva già cominciato ad accettarmi.

Tre anni fa in un consultorio piemontese ho cominciato le terapie ormonali, avviato le pratiche per la rettifica anagrafica. Lì mi hanno affettuosamente rassicurato: la mia transizione sarà ricordata come una delle più lunghe e ponderate della storia. Così quest’estate ho deciso di dirlo alla preside, una donna di grande esperienza, tosta e autorevole. Prima di trovare il coraggio ho pianto tre giorni. Poi l’ho invitata in pasticceria per parlarle a cuore aperto e chiederle un trasferimento. Non ce n’è stato bisogno.

«Ti sei deciso finalmente», mi ha detto subito la mia preside. Poi mi ha ascoltato con attenzione, commuovendosi anche un po’. Alla fine, mi ha proposto di restare. «Non vedo perché devi trasferirti. Sei un ottimo professore, amatissimo dagli studenti, i colleghi ti rispettano. E poi ho bisogno di un vicepreside, avevo già intenzione di chiedertelo. Vorrà dire che avrò una vicepreside».

Ringraziamo per la consulenza, Trans-Ala, sportello milanese gestito da volontari e specialisti di Milano, oltre che l'Associazione Medici Endocrinologi.