Mia zia Vanda, dovendo risistemare casa, ha cominciato a liberare il ripostiglio da trent’anni di accumulo, e ha trovato un’edizione del 1964 dell’Enciclopedia della donna che le aveva regalato sua madre, cioè mia nonna: fascicoli settimanali che la Fratelli Fabbri Editori mandava in edicola. Raccolti certosinamente in quattro volumi rilegati, l’opera che doveva rappresentare la summa di tutto ciò che una donna era tenuta a sapere all’epoca mi è stata affidata: e io ero convinta di scaricarla nel primo cassonetto che avessi trovato.

Invece, con mio sommo stupore, l’ho iniziata a leggere e l’ho trovata una lettura imprescindibile. In ogni fascicolo c’erano tanti tipi di consigli, lettere a cui gli esperti rispondevano, profili generalisti di donne di altri paesi (la donna scandinava è quella che mi ha fatto ridere di più), o di altre epoche (la donna barbara, la donna cristiana ecc. ecc.). E poi piccole sinossi di grandi capolavori della letteratura - non sia mai le donne dovessero leggerselo tutto, un romanzo.

IN QUEI VOLUMI TROVAVI RIMEDI INFALLIBILI CONTRO LE MACCHIE

Mio marito, che fa la lavatrice dei suoi vestiti come io faccio quella dei miei, mi ha guardata per giorni restare intrappolata nelle immagini di diversi tipi di scope necessarie alla pulizia domestica, e di consigli su come trattare le macchie. L’enciclopedia della donna per le macchie dà dei rimedi infallibili e per tutto il resto rende in maniera riconoscibile la temperatura sociale in cui erano immerse la mia povera nonna Ada e la mia povera zia Vanda. Meno male che di lì a poco sarebbe arrivato il ’68, sarebbe arrivata Carla Lonzi con Sputiamo su Hegel, e sarebbe arrivato il femminismo. Eppure…

Eppure i conti ancora non tornano… Qualche tempo fa sono stata invitata in un liceo classico a parlare di una raccolta di racconti: gli alunni che avevo davanti erano ragazze e ragazzi di quasi diciott’anni, in dirittura d’arrivo verso la maturità. I ragazzi erano scandalizzati dalla descrizione di una prostituta che c’è in un racconto, come da quella di un tradimento che c’è in un altro. Erano cioè scandalizzati non da ciò che io raccontavo, ma dal fatto che lo raccontassi. Qualche insegnante ha anche detto che non aveva fatto leggere il libro perché c’erano delle “espressioni troppo forti”, anzi delle “parolacce”. Le parolacce in questione erano la forma volgare con cui gli stessi ragazzi - e anche molti insegnanti, ne sono sicura - chiamano gli organi sessuali. Cioè io scrivo cazzo invece di membro, culo invece di sedere. È una scelta linguistica accurata, pensata. Certo so che le persone molto giovani sono assolute, vedono tutto in termini di nero e bianco, e che se la verità è nel mezzo essa si possiederà solo dopo tanti inciampi e tanta vita percorsa.

Però ho sentito una sfalsatura, una inadeguatezza: possibile che la narrativa li scandalizzi? Se così è, c’è qualcosa che non va. Allora mi sono chiesta in che termini si parli, per esempio, nei licei classici del Simposio, cioè cosa diamine viene tradotto di quel magnifico dialogo platonico in cui non si fa altro che intrecciare l’amore uranio a quello pandemio, cioè il desiderio al sesso, il sentimento al corpo. Oppure come non pensare che la storia della letteratura occidentale nasce da un tradimento? Ho avuto impressione che non sia stato loro detto, chiaro chiaro, che Elena e Paride sono scappati assieme per fare l’amore. Che gli dei pagani sono tutti nudi e pensano sostanzialmente solo a sesso e guerra. Ne ho avuto paura, quasi, perché ho un’immensa fiducia nelle nuove generazioni, e mi chiedo cosa sia successo in queste case: perché non siano entrati in parti uguali Woodstock e l’azione cattolica, affinché le parti si potessero bilanciare o sbilanciare a ragione veduta. In qualche modo (ho quarantatré anni) questi ragazzi potrebbero essere miei figli, e io sono stata a mia volta figlia: di una generazione che ha conquistato l’aborto e i consultori, cioè due avamposti della libertà delle donne, che libera anche gli uomini, e che si esplica tutta in un luogo, il corpo.

Dopo cinquant’anni dalla rivoluzione sessuale, dal Sessantotto, dall’autoevirazione di Gérard Depardieu nel film di Marco Ferreri, la guerra si combatte ancora sui corpi delle donne, si sa, si dice sempre: che passa per i burkini e per i topless, in varie forme e vari gradi, sì. Ma al di là delle battaglie laiciste e dei diktat religiosi, quello che mi pare sfuggire sia un senso interiorizzato di libertà di gestione del sesso. Interiorizzato, fatto proprio.

QUAND'È CHE ALLE VENDITRICI AVON SI SONO SOSTITUITE QUELLE DE “LA VALIGIA ROSSA”?

Al di là di quello che si dice, le donne lo sanno davvero che sono libere di fare quello che vogliono del proprio corpo, quello che meglio corrisponde loro? E gli uomini lo sanno davvero che alle donne piace scopare in assoluto, e non proprio in quel momento e perché ci sono loro? Sembrano domande antiche, ma io sono convinta che invece aleggino ancora (o di nuovo) nell’aria, e che bisogna parlare di più di fica (al Sud si scrive così, con la c e non con la sonora). Dopo la rivoluzione sessuale e l’educazione sessuale, serve la liberazione sessuale. Cioè sentirsi davvero in comunione con il proprio desiderio.

Scopare, godere, raccontarlo, affinché sia naturale: a me, da scrittrice, fa paura che la narrazione del sesso femminile passi attraverso le sfumature di grigio, e di rosso, e di nero: l’estate scorsa ne era tappezzata la spiaggia. Ma davvero? Quando sui siti proliferano “porno per donne” e alle venditrici porta a porta dell’Avon si sono sostituite le allegre rappresentanti de “la valigia rossa”? Davvero narrazione e realtà coincidono? Ciò che si dice non imbriglia ciò che si fa? Sarei voluta passare su quella stessa spiaggia con un carretto e distribuire copie de La filosofia nel boudoir del Marchese de Sade, dell’Ars amandi di Ovidio con traduzione a fronte (in fondo era estate…), ma anche solo de Le mille e una notte, o ancora più semplicemente, dei racconti di Anaïs Nin. Dove è finito il delta di Venere? Luoghi, cioè, dove si è riuscito a liberare il corpo dallo scandalo che esso comporta?

Basta googlare qualche foto di Woodstock per capire che negli anni Ottanta del nostro occidente il discorso sulla fica si è perduto, è stato sommerso: e credo che sia questo il motivo per cui i diciottenni di un liceo classico di provincia si scandalizzano, o dicano di farlo in un’aula magna, invece di desiderare di star loro stesi su quei prati al sole del ferragosto, tutti nudi a sentire musica e cercare la pace.

Forse sarò una nostalgica di ritorno, nostalgica di un’epoca che non ho vissuto ma che mi è passata sottopelle attraverso mia madre e mio padre, attraverso la città spregiudicata e passionale in cui vivo, e di ritorno da un brutto sogno, fatto di tabù e di vergogna a dire, e forse a fare, la vergogna: la sorella cattiva del pudore e della timidezza, che sono invece carini assai. Non credo che sia una questione di mondi borghesi verso mondi hipster, di persone armate economicamente verso un mondo disarmato.

È una questione di cultura più sottile, è liberare il corpo da se stesso, dall’ingombro che esso comporta al suo apparire, e farne il più grande alleato della propria libertà. Parlare di fica davanti a un pubblico che ancora gradisce trasmissioni in cui le donne sono nude e gli uomini vestiti, e non ci trova nulla di oltraggioso (né per l’intelletto né per se stessi), ritornare a parlare di fica come si faceva negli anni Settanta, ma senza spingersi in tirate ideologiche bensì con animo sereno e divertito, con leggerezza e passione, per come la cosa è. Né più né meno, incamminarsi in un’opera suadente di desacralizzazione del corpo: se lo liberiamo non ci saranno più campi di battaglia.

Potrebbe essere il grado 3.0 della nostra missione di lettrici e di scrittrici, così che se lo scandalo è negli occhi di chi guarda, vedremo tanti occhi intenti a guardare loro stessi. Può essere un aggiornamento dell’Enciclopedia della donna, la voce mancante alla lettera F. Non tutte noi, ma una parte di tutte noi, una parte che fino alla rivoluzione sessuale era chiusa nello stanzino delle scope, e che rischia oggi di venire di nuovo “impolverata” anche nel mondo occidentale.