Ciò che si prova è direttamente proporzionale al nostro coinvolgimento fisico. Anzi. È esclusivamente proporzionale al nostro coinvolgimento fisico. La vista per “sentire” deve incontrare il tatto. Ci vuole qualcosa da toccare, afferrare, per “sentire” davvero. O godere, davvero. Lo ripeto a me stessa mentre varco la soglia di un palazzo signorile di Milano. Arrivata nel cortile interno la “voce” di Karl Kraus mi ricorda però che “nell’erotismo c’è questa gerarchia: chi fa; chi osserva; chi sa”. Una citazione da quei Detti e contraddetti di inizio secolo in cui mi ritrovo pienamente. Sono lui, lei e anche l’altra. Sono uomo, sono donna e anche chi ci guarda. O forse, nessuno dei tre.

Sono lui, lei e anche l’altra. Sono uomo, sono donna e anche chi ci guarda. O forse, nessuno dei tre

Ma andiamo con ordine. Mi trovo in un cortile di Milano, dicevamo. Ad accogliermi c’è Guido, titolare di Impersive, la realtà italiana più all’avanguardia nel campo delle tecnologie di virtual reality. È qui che si stanno sviluppando le innovazioni di un mercato che, per quanto iper pubblicizzato, oggi è solo in potenza. Uno studio riportato da Fast Company dice infatti che ci vorranno dai sei agli otto anni perché questo business diventi alla portata di tutti. Si stima anche che alla fine del 2025 si conteranno nel mondo più di 135milioni di visori, dei quali 122 milioni saranno dispositivi mobile. Nonostante ciò ripeto il mio mantra, scettica, mentre uno di questi visori mi viene posizionato sul viso. È una mascherina bianca che cinge il capo con una chiusura a strappo regolabile. Nessun casco da astronauta o strani marchingegni elettronici con sensori a ventosa sulle tempie. È sorprendentemente leggera, tanto da diventare mano a mano impercettibile. Lo smartphone posizionato orizzontalmente diventa d’ora in poi la mia visuale. «Sei pronta?», mi chiede Guido accompagnando la mia mano sul lato destro del visore e indirizzando il mio indice verso un punto preciso. «Ti basta sfiorare qui e si parte. Questo è il tuo tasto play». Intorno a me, intanto, l’ufficio prosegue indisturbato le sue attività.

Play, si parte. La scena che si apre davanti a me è concitata. I rumori sono ovattati, sono immediatamente trasportata in un’altra dimensione. Vedo le “mie” braccia davanti a me. Tese e nervose, impugnano una pistola carica in cerca di un obiettivo. Avanzo, corro, mentre nelle mie orecchie risuonano suoni intermittenti e ordini militari che programmano le mie prossime azioni. Una scia di fumo ora oscura la mia vista, per poi diradarsi mentre una voce maschile nell’auricolare mi annuncia: «you are alone now, Mike». Sei solo. Sono sola. Schermo nero, la scena improvvisamente cambia.

Sono disorientata ma resto immobile, quasi dimenticandomi di avere il visore adagiato sul viso. Sono sempre Mike, il soldato artificiere, ma ora mi trovo nel mio salotto. Lo capisco perché una giovane donna mi viene incontro, comparendo dall’uscio di una stanza rivestita di quella tappezzeria giallognola tipica dei film ambientati in qualche anonimo paesino dell’America del Nord. «Sai perché stiamo insieme, Mike?». È allora che il ritmo del mio respiro aumenta. Dei nostri respiri. Il mio e quello di Mike. Se abbasso il mento vedo interamente il mio corpo, il mio petto che si dilata e si contrae. Lo scollo a V della mia tshirt bianca, i jeans, i piedi nudi. Lei avanza verso di me facendo scivolare sulle sue spalle, una dopo l’altra, le spalline di una sottoveste di seta rosa prima di restare in lingerie. «I shouldn’t be here now», le rispondo. Non dovrei essere qui. Sono io a parlare o Mike? In effetti ora mi sento un po’ un’intrusa. Sale a cavalcioni su di me, è sempre più vicina. Il suo viso è nelle mie mani. D’improvviso mi morde un dito. È ancora più vicina. Le accarezzo la fronte e poi le sposto i capelli da un lato, permettendole di adagiarsi sull’altro e appoggiarsi così sul mio petto. Ora i suoi occhi sono esattamente davanti ai miei.

Mi sembra di sentire il suo respiro affannarsi contro il mio. È qui che capisco la potenza di ciò che sto provando. Nulla come questo contatto visivo mi aveva sino ad ora fatto sentire davvero lì con lei, con loro. Scatta in me un senso di inibizione. Istintivamente mi volto, cercando un altro appiglio visivo. Do una rapida spinta con i piedi alla sedia, permettendole di roteare su se stessa. Scopro così che la mia visuale non è solo frontale, ma che sono completamente immersa nel salotto di Mike. «Non è così usuale», mi spiega Guido, vedendomi girare come una trottola nel suo ufficio. «Di solito la reazione primaria è quella di guardarsi i piedi, per vedere se si è effettivamente in un altro corpo. Negli spot con una donna nel ruolo di protagonista, gli uomini abbassano il mento per guardarsi le tette», mi dice ridendo sotto i baffi. Ma questa è un’altra storia. Torniamo a noi. Sono di nuovo Mike, con i miei blue jeans e la mia fidanzata a cavalcioni su di me, sdraiato sul divano.

Stop, pausa. Sfioro il lato destro del visore e metto in stand by il filmato. Decido all’improvviso di avere bisogno di qualcosa di più forte. Voglio capire se i miei scetticismi possono essere confutati da qualcosa di più hard. Devo provare qualcosa di diverso dai video che potrei vedere qui. Stacco allora lo smartphone dal visore e vado su Pornhub, che ha creato da poco più di un anno una sezione di video in virtual reality. Riattacco il telefono al visore. Play, si riparte. Non sarò io a dover spiegare che qui si trova davvero un po’ di tutto. Anche un neofita del porno online sa che ogni sua esigenza verrà esaudita. Tant’è che questa nuova categoria non ha in sé nulla di diverso da quelle, per così dire, tradizionali. Pur potendole vedere solo io, trovandomi davanti centinaia di queste immagini la mia reazione istintiva è quella di controllare anche quella dell’ufficio. In realtà tutti stanno continuando a lavorare come se niente fosse. Uno risponde alle mail, l’altro è al telefono. Nella stanza accanto, separata dalla mia solo da un vetro, un ragazzo rotea su se stesso con un visore sul viso. Chissà chi è e dove sarà in questo momento.

Play, si riparte. Mi risistemo il visore e continuo la mia ricerca. Senza nessuna sorpresa scopro che non ci sono video etero con donne nel ruolo di protagonista, se non solo quelli in coppia con un’altra donna. Mi sembra ovvio che sia il mercato a richiederlo. Provo allora due filmati: uno nei panni di un uomo e l’altro nei panni di una donna. In pratica, siamo sempre “io” e “lei”. Qui l’effetto narrativo di prima è azzerato. È quella che Martin Amis in un memorabile articolo per il Guardian sull’industria americana del porno, A rough trade, ha teorizzato come la distinzione tra “features” e “gonzo”. Nei primi, dotati di personaggi e di una minima sceneggiatura, si vede “gente che fa sesso sapendo perché lo sta facendo”. Nei secondi ci sono invece persone che “fanno sesso senza sapere perché lo fanno”. Ecco, qui ci sono solo “gonzo”. In entrambi i filmati sono sempre immobile, tranne che per le braccia. Non posso vedere cosa succede attorno a me. Non posso voltarmi, né scorgere i dettagli dell’ambiente che mi circonda. Sono l’elemento passivo di ogni scena. Gli altri gestiscono i miei movimenti e le mie azioni. È inquietante, se si pensa ai risvolti che questa tecnologia potrebbe avere per pratiche illecite o violente fantasie inconfessabili che qui potrebbero diventare “realtà”. Ora una ragazza dai capelli biondo platino è sopra di me. Si muove con maestria, si mette a cavalcioni, mi guarda negli occhi penetrandomi con lo sguardo mentre raggiunge l’orgasmo. Ma qui non mi sento più Mike. La confusione tra cosa è reale e cosa è virtuale scompare. È tutto così asettico.

Stop. Ho bisogno di una pausa. Vedendomi sfilare il visore strabuzzando gli occhi, Guido mi spiega che la brevità di questi filmati è voluta proprio perché l’immersione è totale. Visiva ed emozionale. Mi conferma anche che quel contatto visivo con la fidanzata di Mike è ciò che differenzia in questo momento il mercato, oltre al fatto che «senza la nostra vista reale possiamo dimenticarci chi siamo, anche perdere la nostra identità di genere». Con una rapida ricerca su Google scopro poi che nel 2016, in dodici mesi, con i video in realtà virtuale Pornhub ha registrato una crescita del 250% degli utenti solo in Gran Bretagna e Irlanda, pur rimanendo proporzionalmente più popolare in paesi asiatici come la Thailandia e le Filippine.

Play. Riavvio il filmato iniziale. Torno a essere Mike. Non sono più nel mio salotto ma sulla scena di un attentato. Le mie braccia impugnano di nuovo una pistola, ora puntandola su ostaggi incappucciati che si dimenano in un capannone abbandonato. Sento che mi sto avvicinando sempre di più al bersaglio. Eccolo, è davanti a me. Scosto entrambi i lembi della sua camicia per disinnescare la bomba. Di nuovo schermo nero. Torno nel mio salotto. Mi sento a casa.

PLAY. SI CONTINUA. Lei è sempre qui, in mutande e reggiseno rosa pallido, sopra di me. La testa adagiata sul mio petto è così reale da farmi sentire il suo peso addosso. I nostri respiri si muovono all’unisono. Il suo, quello di Mike, e ora anche il mio. Mi ritrovo a scandire il ritmo insieme a lei. Insieme a loro. Il ricordo di quelle stanze asettiche dove ero immobile è già lontanissimo. Saranno le storie a vincere, mi dico ingenua.

Stop. Devo finire di leggere il report. Scopro così che nel 2016 la sezione virtual reality di Pornhub ha registrato la più veloce crescita annuale di sempre, con un picco massimo il giorno di Natale.

Play, riavvio il filmato. Lei improvvisamente si alza. Si avvicina ancora di più. Mi sembra di sentire il suo fiato sulle mie labbra. Il suo sguardo trafigge il mio. Vorrei distoglierlo ma ora non posso, sento che devo rimanere lì con lei. Non è ancora arrivato il momento di andarmene. “In what do you believe Mike?”. In cosa credi, mi chiede all’improvviso. Nelle storie, vorrei risponderle.

La verità è che abbiamo sempre bisogno di storie. Abbiamo bisogno di credere in qualcosa. Che sia reale, fittizio o virtuale. Le storie ci prendono per mano anche nei nostri antri più bui, quando ci troviamo a sognare un’altra vita o a godere insieme a uno sconosciuto con un visore bianco sul viso. O forse sono rimandi a emozioni passate, a qualcosa che abbiamo già vissuto e che vogliamo continuare a ricreare.

Faranno la fortuna di chi in questo business saprà immergere completamente lo spettatore in una vita che potrebbe sembrare sempre di più uguale alla sua. «In what do you believe?», continua lei.

Cosa mi stai chiedendo, mi viene da controbattere. Se credo in te, che vivi in una realtà che non esiste? Se finiremo tutti a soddisfare i nostri bisogni sessuali con un visore e comodamente seduti sul nostro divano, magari mentre il nostro partner lava i piatti? Se saremo in grado di gestire una doppia realtà ricordandoci sempre quali sono le nostre vere emozioni, a letto e non solo? Dopo un’ora passata insieme a loro, è solo con quella domanda che mi sono sentita, davvero, Mike.