«Potreste girare un video, una cosa divertente da mettere su YouTube, magari dove vi intervistate a vicenda o dite cose simpatiche. Una coppia gay ha fatto un balletto sulla canzone Call Me Maybe: è diventato virale, l’hanno visto due milioni di persone. È così che sono stati contattati dalla madre del bambino».
Deve essere stato questo il momento in cui io e mio marito ci siamo guardati cercando conferma l’uno negli occhi dell’altro, l’attimo in cui davanti ai consigli di Mark, l’esperto di media che avevamo assunto per pianificare la nostra presenza in rete, abbiamo iniziato a dubitare che questa fosse la nostra strada, che lo stress, il mettere in piazza le nostre vite, la vulnerabilità che ci veniva richiesta forse era troppa. Allo stesso tempo eravamo incapaci di tirarci indietro, incastrati in mezzo a un percorso che non ci stava portando da nessuna parte, con addosso i sensi di colpa di chi pensa che per avere un figlio in fondo farebbe qualsiasi cosa. O no?

Il guado in cui ci siamo trovati si chiama adozione. Più precisamente private adoption, che è la più comune forma di adozione infantile negli Stati Uniti. Essendo un Paese con pochissimo controllo governativo, l’adozione di un bambino qui è sostanzialmente un fatto privato, un contratto che avviene tra una madre incinta che ha deciso di intraprendere un adoption plan per il proprio figlio e una coppia - o un single - che se ne vuole prendere cura e che è stata preventivamente giudicata idonea da un giudice e da una serie di assistenti sociali. Il modo in cui avviene l’abbinamento di solito funziona così: la birth mother e la famiglia adottiva in qualche modo vengono in contatto, si incontrano, si conoscono, si frequentano, si scelgono, fanno parlare i rispettivi avvocati e alla fine si presentano davanti a un giudice per finalizzare l’adozione, che rimane in termine tecnico “aperta”: il bambino sa da subito di essere stato adottato, ha a disposizione tutte le informazioni sulla madre biologica, e quest’ultima ha anche una presenza nella sua vita che è decisa dal tipo di contratto stipulato che può andare da un incontro alla settimana, all’anno, ogni sei mesi.

Fino a qualche anno fa, si dava la propria disponibilità all’adozione di un bambino attraverso gli annunci sui giornali. O con volantini distribuiti nelle Università, negli studi medici, nelle palestre, dall’estetista, in luoghi si presume frequentati da giovani donne. Oggi che i quotidiani si leggono meno, la ricerca si è spostata online. Più precisamente sui social media. La prima cosa che infatti il nostro avvocato ha fatto è stata metterci in mano un libro in cui veniva illustrato che cosa si intende per media plan, ovvero la pianificazione della nostra presenza in rete.

«Per prima cosa dovete farvi un sito. Una cosa del tipo danesimonaadottano.com. Poi con lo stesso nome dovete aprire un profilo Twitter, una pagina Facebook e un profilo Instagram. E dovete promuoverli in rete, fare in modo che siano visibili». E così abbiamo fatto. Mark, papà adottivo ed esperto di informatica, ci ha aiutati a creare il sito e a decidere cosa metterci dentro: una biografia di noi come coppia, informazioni sulle nostre famiglie, una spiegazione del perché vogliamo adottare, un elenco delle cose importanti per noi che vogliamo trasmettere al bambino e poi tante, tantissime foto nostre, dei nostri amici, del nostro quartiere. Non mettete foto troppo professionali e perfette, ci è stato detto da alcuni. Mettete solo foto bellissime, ci hanno detto altri. Non esagerate con il cane. Fate vedere sempre il cane. Sorridete. Mettete le foto delle vacanze. Non mettete troppe foto di vacanze. Siate voi stessi, siate la versione migliore di voi stessi. Siate caldi e affidabili. Soprattutto, pensate: se voi foste una ragazza incinta che ha scelto l’adozione per il proprio figlio, che cosa vorreste vedere e sapere della famiglia che lo crescerà?».

Una volta costruito il sito siamo passati alla pagina Facebook per la quale abbiamo dovuto anche prevedere un advertising plan, un piano per pubblicizzare la pagina all’interno di Facebook, selezionando le aree geografiche e il tipo di pubblico presso il quale promuoverla. «Nell’ultimo anno tre mie clienti hanno trovato un bambino così», ci ha detto l’avvocato. Poi è stata la volta di Instagram. «Le ragazze giovani sono tutte qui. Un’altra coppia è stata contattata così». Nel giro di sei mesi io e mio marito abbiamo dovuto rendere pubblica non solo la nostra vita quotidiana fatta di gite al parco col cane e passeggiate sul fiume Hudson, ma anche uno degli aspetti più intimi per una coppia: il desiderio di avere un figlio.
«Più siete presenti in Rete, più crescono le possibilità che una madre vi veda», ci ha ripetuto l’avvocato. Esponetevi, postate tutti i giorni, interagite, usate gli hashtag giusti che possano incrociare gli interessi delle madri, cose del tipo #adoptionrocks #adoptionplan #birthmomstrong #hopetoadopt.

Lo abbiamo fatto. Lo continuiamo a fare, anche se ci costa fatica, anche se a volte ci sembra folle, anche se ci esponiamo al giudizio della gente e su Facebook riceviamo insulti (“egoisti” è solo il più gentile degli epiteti). Anche se dopo mesi di silenzio e nessun contatto l’insicurezza e la frustrazione incominciano a farsi strada, e noi a pensare che forse c’è qualcosa di sbagliato nella nostra vita, che quello che mostriamo in Rete non è abbastanza affascinante, che in confronto ad altre coppie di genitori adottivi alla ricerca di un bambino - e sono tantissime - noi siamo troppo vecchi brutti e noiosi o non abbiamo l’aria delle persone affidabili. In fondo perché mai una madre dovrebbe dare proprio a noi suo figlio? Guarda il profilo di Alexandra e George! Loro sì che sono perfetti. Che cosa hanno loro che noi non abbiamo?

A dire la verità un contatto c’è stato. Due mesi fa abbiamo ricevuto un messaggio diretto su Instagram. Jessica, 19 anni, della Florida. «Mi interessa il vostro profilo», ci ha scritto. «Vi piacciono le stesse cose che piacciono a me e al mio fidanzato». Ci ha detto di essere incinta di sei mesi, ci ha mandato foto di pance, ci ha fatto domande sul tipo di genitori che volevamo essere. Dopo uno scambio di messaggi di qualche giorno, ci ha chiesto se potevamo parlare al telefono. Abbiamo detto sì, per quella che è stata la conversazione più surreale della nostra vita. Jessica parlava pianissimo, era incoerente, si lamentava. L’avvocato ci aveva avvertito: sono ragazze giovani, spesso spaventate, non siate giudicanti, cercate di comprendere, in fondo stanno facendo una scelta difficilissima. Tra mille difficoltà abbiamo quindi ripetuto a Jessica quanto fossimo felici che lei prendesse in considerazione proprio noi, le abbiamo detto quanto e come avremmo amato quel bambino. È andata avanti così per qualche giorno, fino a quando Jessica ha cominciato a fare stranezze. Per prima cosa ha cambiato il nome al suo account Instagram: ora si chiamava Alisa. Poi il numero di telefono. Poi ci ha mandato una foto di una donna incinta che non era chiaramente lei. Poi ci ha scritto un messaggio dicendo che aveva cambiato idea.

«Succede», ci ha avvertito l’avvocato. Alle volte le madri contattano più famiglie allo stesso tempo, oppure decidono di crescere il bambino, oppure spariscono per un po’ e ricompaiono dopo mesi, quando sono a giorni dal parto. «C’è anche la possibilità che fosse una emotional scammer», ha continuato usando una parola che non avevo mai sentito. Sono donne che si fingono incinte e vanno in rete alla ricerca di gente come me e mio marito. Alcune a un certo punto chiedono soldi, inventano situazioni di emergenza e facendo leva sulla disperazione delle coppie cercano di farsi mandare denaro, cosa che per legge è ovviamente vietata: non si comprano i bambini, neanche negli Stati Uniti. Altre si limitano alla manipolazione emotiva, sono persone evidentemente disturbate che richiedono attenzione. Riconoscerle almeno all’inizio è quasi impossibile, di solito ci sono dei segnali di allarme e con il tempo si diventa più scaltri: un’altra, Lisa, diceva di avere un bambino di due mesi che voleva dare in adozione, peccato che alla terza mail abbia allegato la foto di un bambino di quasi due anni presa da un sito di giocattoli.

Il dubbio c’è: se Jessica fosse stata davvero una diciannovenne confusa? Ho pensato anche di ricontattarla, ma a che prezzo? Forse è meglio continuare a sperare che là fuori ci sia una donna che quando vedrà il nostro profilo si riconoscerà in noi, che avrà i nostri gusti, che amerà i cani, che considererà importante l’istruzione e la famiglia, una a cui non piaceranno i balletti divertenti, ma con cui condividere la passione per Trono di Spade, una che penserà a noi non come ai genitori migliori in assoluto, ma ai più adatti a lei e al bambino, che diventerà nostro e diventeremo una specie di famiglia allargata. In questi mesi tra profili online e Instagram ho pensato a come in fondo assomigli al dating e come per gli incontri romantici un po’ è fortuna, un po’ deve scattare qualcosa da entrambe le parti. Inutile forzare il destino. Noi ci siamo. Come dicono gli americani siamo out there, là fuori a sperare e non sempre è facile. Ma se deve succedere, succederà.