Papà.
Da undici anni non ci sei più, e oggi, proprio oggi, più che mai ti vorrei qui. Vicino a me. Che ti amo te l’ho sempre detto, e so per certo che nel tuo Chissà Dove lo sai. Ma quello che non ti ho mai detto, perché ancora non potevo saperlo, è tutto quello mi hai lasciato sulla pelle e nella spina dorsale, negli occhi, sulle guance, addosso e dappertutto.
Vedi, di noi due io non potrò mai dimenticare niente. La faccia che hai fatto quando mi hai visto la prima volta montare sulla mia moto e quella di quando hai visto per la prima volta Tommaso, e ancora prima di prendere in braccio lui, tuo nipote, hai dato un bacio sulla fronte a me. Tua figlia.
Quelle due facce, tutte le altre. Tutte le parole.
Le ultime, quando per telefono da quel maledetto aeroporto mi hai detto che l’aereo era in orario, e poi basta, al posto della tua voce ho sentito quel rumore sordo.

Quel. Rumore. Sordo.
Sarà caduto il telefono, ho pensato. E invece eri caduto tu, il mio gigante indistruttibile. Fra persone sconosciute che si sono affannate su di te, ed erano tantissime, ma anche pochissime, se fra quelle persone io non c’ero. Questo, per anni, ho rimproverato alla vita: averti negato la mia ultima carezza, avermi negato la tua. Non riuscivo ad accettarlo e giorno dopo giorno, senza rendermene conto, mi sono barricata dietro mura più alte di te, sola con un dolore che è diventato un amico, l’unico da cui mi sentivo protetta e nutrita.
Non è stato facile evadere da quella prigione, sai?
Anche perché mi pareva un rifugio buono, soffice…Una specie di nursery.
Una stanza tutta per me dove niente e nessuno, mai più, avrebbe potuto farmi di nuovo male.
Ma niente e nessuno, mai più, avrebbe potuto farmi sentire viva. E allora, soprattutto per Tommaso, mi sono messa lì a sfilare prima un mattone, poi un altro, un altro ancora.
Ho deposto l’armatura e sono tornata nel mondo.
Questo nostro mondo che mi pare inizi e finisca in quell’aeroporto, ma che in realtà è un posto molto più grande.
A modo suo meraviglioso.

Però, adesso, adesso che ce l’ho quasi fatta, avrei bisogno che tu mi dicessi che sei fiero di me. Sei stato la mia sola mano tesa nei corridoi bui di questi anni, ho fatto mia la tua dignità, mia la tua correttezza, mia la tua caparbietà…Mi hai insegnato che a volte serve anche solo rimanere fermi, in silenzio, e aspettare che il sole arrivi ...Perché, come mi dicevi sempre, anche se crediamo di no, le giornate hanno una loro intelligenza misteriosa, e il sole prima poi torna sempre. Papà, mi vedi? Vero che mi vedi? Cammino sotto il sole.
Non ho più paura che mi bruci, mentre mi scalda.
E la sua luce mi mostra chiaramente quello che mi hai lasciato.
Il senso del dovere, della fatica e del lavoro. La pazienza di aspettare. La fiducia in un amore travolgente, l'unico che possa chiamarsi così, che valga la pena di inseguire e preservare ad ogni costo, quello che non c’entra niente con la mestizia e l’ipocrisia borghese, quello che non può chiedere un prezzo troppo alto da pagare.
Me lo dicevi sempre: «Tu sei una roccia, Lele, e molto probabilmente sei solo inciampata su un uomo, perché sul resto non potevi incespicare».

Avevi ragione, papà. Su tutto il resto non ho incespicato. Ma tu non smettere di guardare dove metto i piedi.

La tua,

Lele.

La vostra vita diventa un racconto scritto da Chiara Gamberale. Mandate le vostre storie a mcsentimentalisti@hearst.it