Ho scritto a Jessica Zucker ben consapevole di trovarmi di fronte a una donna coraggiosa. Lo si è per forza quando si decide di trasformare uno dei momenti più difficili della propria vita in qualcos’altro. Qualcosa di buono, di nuovo: qualcosa che vuole lasciare il mondo migliore di come l’ha trovato.

Jessica era alla sedicesima settimana di gravidanza quando ha avuto un aborto spontaneo. Psicologa di Los Angeles specializzata nel supporto alle donne in gravidanza, per la prima volta si è ritrovata a vivere sulla propria pelle quello che fino a quel momento aveva visto accadere ad altre. Così ha scoperto che dietro quelle due parole, “aborto spontaneo” – da decenni invise, celate o rimosse – c’era un mondo di silenzio e sofferenza in cui molte donne si ritrovano sole e senza sapere come chiedere aiuto.

Perché ancora oggi un’esperienza così dolorosa, che secondo l'American Congress of Obsteticians and Gynecologistsi

La reazione di Jessica Zucker è stata però diversa da tutte le altre: invece che chiudersi in un lutto solitario, ha deciso di parlare apertamente della sua esperienza, nella speranza di dare alle donne che avevano vissuto un’esperienza simile quel sostegno che il senso di colpa gli aveva negato.

Troppo spesso le donne incolpano se stesse per la perdita di un figlio e se ne vergognano

Nel 2014 ha così dato vita alla campagna #IHadAMiscarriage, mettendo per la prima volta apertamente in discussione il tabù che circonda la perdita di un bambino mai nato e creando uno spazio sicuro di condivisione dove ogni donna potesse raccontare la propria perdita. Intervistarla è stato, neanche a dirlo, illuminante.

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Perché ancora oggi si fa fatica a parlare dell’aborto spontaneo?
L’aborto spontaneo è un tabù perché non gli viene data l’attenzione che merita. Troppo spesso le donne incolpano se stesse per la perdita di un figlio e se ne vergognano, scegliendo il silenzio perché semplicemente non vedono altre vie per affrontare il dolore che provano. Se riuscissimo a portare questa sofferenza alla luce del sole, invece che voltare la testa dall’altra parte, ogni donna saprebbe finalmente di poter fare affidamento sul supporto di cui ha bisogno per imboccare la strada della guarigione.

Per questo motivo ha deciso di creare #IHadAMiscarriage?
Tutto è iniziato con un pezzo sul New York Times che ho scritto per sostituire al silenzio che regnava intorno all’aborto spontaneo il racconto della mia esperienza. In quell’articolo non solo ho raccontato i dettagli del mio aborto, ma ho invitato apertamente [chiunque ne avesse sofferto] a fare lo stesso. Come psicologa mi sono sempre occupata del benessere mentale delle donne prima e dopo la gravidanza, utilizzare la mia stessa esperienza per diffondere la consapevolezza e mettere in dubbio il clima culturale attorno a questo tema mi è sembrata la scelta più giusta. Nella teoria ne ero un’esperta, ma solo quando ho subito io stessa la perdita del mio bambino ho compreso realmente cosa significasse, mentalmente e fisicamente.

Quali sono state le prime reazioni?Sono rimasta sbalordita dalla quantità di donne che hanno seguito il lancio della campagna nel 2014. Tutte hanno cominciato a condividere le loro storie e a raccontare quanto sole e isolate si erano sentite per anni dopo la perdita del proprio bambino. Insieme abbiamo cominciato a questionare la triade che conseguiva a ogni aborto spontaneo: il silenzio che lo circondava, l’impronta indelebile che lasciava e la vergogna che portava con sé. Era chiaro che loro come me volevano creare un senso di connessione e comunità intorno a quest’esperienza. L’aborto spontaneo è frequente, perché allora non parlarne? Certamente non cambierà le statistiche ma affrontare queste perdite apertamente dona il supporto che serve per andar avanti. Una cosa è assolutamente chiara: sentirsi sole nel lutto non può che peggiorare le cose.

Nella teoria ero un’esperta, ma solo quando ho subito io stessa la perdita ho capito

Secondo lei perché è importante condividere una storia così personale?
Quello che voglio è semplicemente che le donne sappiano che non c’è nessuna vergogna nella perdita di un figlio. Se una donna sente il bisogno di condividere la storia del proprio aborto o della perdita del proprio figlio in fasce deve essere libera di farlo e di ricevere il supporto di cui ha bisogno. Per quelle donne che preferiscono non parlarne, voglio solo che scelgano quest’opzione perché la sentono come la più giusta per loro e non per senso di colpa o vergogna.

Non sono molte le donne che userebbero Instagram per diffondere consapevolezza su un tema come questo. Serve molto coraggio e ancora più intelligenza per farlo.
Sono parole che significano moltissimo per me. Aprii Instagram quando creai i miei primi biglietti per esprimere le condoglianze per la perdita dei nascituri. Data la loro natura pensai che condividere questi messaggi attraverso Instagram sarebbe stato utile. Alla fine il mio account è diventato un luogo dove le donne di tutto il mondo possono esprimersi ed entrare in contatto fra loro facendo affidamento su una community libera da qualsiasi senso di vergogna. Lo considero un posto dove le persone possono parlare apertamente di ogni aspetto della gravidanza, anche di quelli ancora vittime di tabù: parliamo di aborto, delle dinamiche familiari, di ciò che accade al corpo e anche di come affrontare il sesso dopo la perdita.

Spero che le donne realizzino che essere dure verso se stesse non gli ridarà il bambino

Cosa spera per il futuro delle donne che hanno subito un aborto spontaneo?
Spero che le donne sappiano che non hanno fatto nulla per meritarsi un simile dolore e che possono ritornare ad essere forti come prima. Spero che realizzino che il loro corpo non le ha “deluse” e che essere dure verso se stesse non gli ridarà il loro bambino. Spero che imparino ad amarsi abbastanza per accettare anche i lati più oscuri della vita: la morte, il dolore e il lutto. Spero che realizzino quanto sia rivoluzionario accettare di essere vulnerabili e decidere di andare comunque avanti. E spero che sappiano che, in tutto questo, non sono da sole.

E, grazie a Jessica Zucker, non dovranno più esserlo.