Ci vediamo e ci riconosciamo. Sempre. Anche quando non vorremmo vederci e neppure riconoscerci. Per chi è ammalato di anoressia e bulimia non esiste tortura più crudele che vedere la propria immagine interpretata da ciò che in fondo è solo il riflesso di una verità arbitraria: uno specchio, nient'altro che uno specchio.

Non Dio, non la donna o l'uomo che si ama, non i propri genitori o amici o gli ideali, e cioè quei soggetti emotivi cui è lecito, e spesso salvifico, concedere giudizi: per me l’unico parere accettabile era quello dello specchio o delle vetrine che incontravo camminando a Bologna. Sono un uomo, ho 33 anni e per 10 sono stato anoressico. E poi bulimico. E quindi anoressico. E di nuovo bulimico. Ho abitato in vestiti attillati che amplificavano le mie forme scheletriche e ho vissuto in corpi ordinari per nascondere la mia malattia; più spesso ho affittato modi di essere che consideravo ordinari per conquistare quella normalità dalla quale, l’ho capito diventando uomo, avevo sempre cercato di fuggire e che oggi, insieme alla capacità di riconoscere chi ha vissuto gli stessi problemi, rimane l'unico batterio della malattia. A essere onesti, di batterio ne ho un altro: ricordo bene l'apporto calorico della maggior parte dei cibi. Ma riesco a evitare di contare le calorie di pranzi e cene.

PENSANDOCI- ACCIDENTI - HO UN ALTRO FANTASMA: se mi guardo allo specchio soffro ancora di disformismo, la malattia a corollario dell'anoressia che mi impedisce di vedermi come sono. Nel momento più acuto del disturbo, a 23 anni, percepivo il mio corpo come un guscio molle anche quando pesavo 54 chili per un metro e ottanta. Oggi mi vedo fuori forma quando ne peso 85. La differenza è notevole: allora ero malato, oggi mi concedo qualche frivolezza. La giostra dei disturbi alimentari era fatta di restrizioni alimentari, di straordinarie abbuffate, di vuoti infiniti da riempire con cibi trovati per casa,biscotti comprati cercando denaro ovunque, resti di resti ottenuti raccogliendo, di nascosto, i cibi lasciati dagli altri. Ciò significava molte cose, ma anche nessuna. Perché molte cose era ciò che volevo essere e nessuno era ciò che la malattia mi faceva inesorabilmente diventare.

Ero un drogato: saltellavo, non troppo allegramente, tra desiderio di morte e fame di sopravvivenza. Si potrebbe pensare che i disturbi del comportamento alimentare siano una prerogativa femminile; io, per primo, lo credevo nella brevissima fase della malattia che precede la vergogna, e che ho imparato a chiamare Controllo Della Situazione; sapevo, negli effetti, che l'unico termine possibile per quella genesi era Inizio Del Baratro.

«Che fico» pensavo a 16 anni, «in una cosa posso essere eccezionale: ho scoperto un modo grandioso per perdere venti chili. Non parlerò con la gente morta come il bambino del Sesto senso,ma perlomeno le ragazze si accorgeranno di me».

A QUELL’ETÀ ERO UN RAGAZZINO MOLTO BIMBO, con i capelli molto biondi, gli occhi molto azzurri, e con 90 chili di carne. Insomma, ero molto“molto”. Mia madre, per assicurarmi un'educazione appropriata, mi iscrisse a un liceo privato di Bologna, poco consono alla mia maturità: gli studenti di quel collegio barnabita erano tutti molto belli, molto meno bimbi di me, e molto ricchi. Insomma molto “molto” anche loro, ma in modo certamente diverso. Nacque qui il ragionamento: «Questo è ciò che devo essere».

Uso il termine “ingenuo” ma potrei tranquillamente sfruttare la parola “pirla”. Sono stato ingenuo, dunque, a scegliere di emulare le gesta di Lady Diana, dalla quale appresi la cura alla mia obesità guardando una fiction; a chiudermi in bagno e infilarmi indice e medio in bocca, si dice facesse la principessa triste, aspettando che succedesse ciò che sarebbe dovuto succedere. Impiegai un’ora per sentirmi come lei, quella notte. E non fu regale. Fu vuoto. Da quel giorno sono diventato un calorie- schiavo, un cibo-dipendente, un supermercato- pretendente. Ho smesso di essere ingenuo e ho iniziato ad ammalarmi di anoressia, cosa che mi ha donato una certa astuzia nell'escogitare sistemi cosmici e machiavellici per nascondere ai miei genitori ciò che facevo. Non è stato difficile: nessuno poteva anche solo immaginare. Avevo tutto sotto controllo, la normalità a un palmo di mano.

L’INGHIPPO ERA CHIARO: poiché mancavo di equilibrio e autostima, ho proiettato nella ricerca della perfezione estetica il bisogno di approvazione. Perché abbia scelto la bellezza e non l’intelletto o la simpatia per costruire il castello di carte della mia personalità, rimarrà un grande mistero della mia vita. Non ho mai conosciuto uomini che abbiano avuto i miei stessi problemi (si dice che siano il 10% degli ammalati di Dca, cioè di Disturbi del comportamento alimentare), per cui non ho confronti di genere; sono convinto, però, che non esista una risposta valida per tutti. La televisione e il deperimento dei costumi certo sono colpevoli ma non possono essere accusati di aver innescato la bomba, almeno nel mio caso. La miccia l’ho accesa io.

DOPO LA FASE DI CONTROLLO, in cui mi sentivo il cinico risolutore delle mie imperfezioni, sono stato scoperto. Avevo lasciato indizi: venti chili persi in due mesi, bagni ridotti in condizioni disdicevoli, esami del sangue sballati, livelli di potassio da sogliola dell’Adriatico, denti rovinati, segni sulle mani lasciati dai denti e un fisico invidiabile, ma solo se ben coperto: sotto ero pelle e ossa. Sopra, nel volto, un’espressione triste e la faccia gonfia. Vorrei precisare una cosa: la faccia gonfia, e quindi una maschera di normalità, è uno dei tanti fantasmi della malattia: poiché indulgevo in pratiche poco piacevoli ogni volta che mangiavo - e quindi continuamente - le ghiandole salivari erano ampollose come cocomeri maturi. Per quanto dimagrissi nel corpo e mi svuotassi nell’anima, il mio volto rimaneva gonfio e quindi, nella mia visione, grasso. Non volevo essere fotografato, ma desideravo immensamente essere guardato.

LO STADIO “VERGOGNA”, E QUINDI DI NEGAZIONE del problema, arrivò subito dopo il “controllo”. Mia madre si disperò, mio padre si sconvolse, mia sorella si intristì, mio zio si incazzò. Erano tempi in cui ingerivo 20mila calorie al giorno con il resto di 20mila nel bagno, per capirci. Ed era l’epoca dell’omertà: nessuno parlava in modo esplicito di cosa ci, mi stava accadendo. Venivo controllato, e come in una partita a scacchi (erano tutti miei nemici) ascoltavo le mosse, i commenti: «Poverino », «Cosa facciamo?», «È matto?», «Ci sta uccidendo…». «Ma non si tratta di una cosa che accade solo alle donne?», «Non sarà mica gay?». Ero solo malato.

QUESTA CONSAPEVOLEZZA mi ha portato nel caleidoscopio della terapia: uno stuolo di psicologhe pronte ad aiutarmi. E un sensitivo, una specie di guru che si ostinava a chiamare “Bulemia e Annorestia” la mia malattia. Per 150 euro a seduta restavamo per l’appunto seduti e basta; in silenzio. «Medita pensando al Tao», mi diceva. E io meditavo, chiedendomi cosa fosse mai questo Tao. La solfa dei medici era simile ai pompaggi emotivi che fanno certi istruttori di multilevel marketing: ero speciale, ero intelligente, ero sensibile. Ero Superman, dovevo solo comprenderlo e tenere un diario alimentare per controllare (di nuovo Controllo) cosa mangiassi.

Quando ho cambiato città per lavoro e mi sono preso cura di me, ho capito che ero solo un uomo fragile. Nemmeno Mary Poppins era perfetta, ma solo «praticamente perfetta sotto ogni punto di vista», come cantava Julie Andrews. E Mary Poppins era donna. Come giovane uomo, il mondo che mi immaginavo gravitasse intorno a me pretendeva fossi forte, non debole. Nella nuova città ho avuto un’epifania. Ho capito, e non essendo un genio mi ci è voluto del tempo, la distinzione tra debolezza, fragilità e vulnerabilità. Non si tratta di fisica dei quanti. Si nasce con i capelli biondi o scuri, si muore per malattia o incidente, si cresce deboli o forti, si vive scegliendo di accettare se stessi o meno. E io ho scelto di accettare che tipo di uomo ero. Mary Poppins mi darebbe ragione: con un poco di zucchero la pillola va sempre giù.