«Sono sul terrazzo comune del mio condominio, il luogo che oggi sento più mio. Dal lockdown qui ci si affaccia per aiutarsi, supportarsi. La pandemia è entrata nelle case anche per creare dei meccanismi nuovi, ci ha costretti a rileggere la nostra normalità. Nel bene e nel male. E la nostra Brigata risponde proprio a questo».
La voce di Luciana De Angelis, per tutti Lula, arriva calda e delicata da un balcone di Milano, nel verde in zona Lambrate. Le sue parole, con un forte accento spagnolo, sono un vortice calmo ma continuo. Psicologa, nata a Buenos Aires nell’82, milanese d’adozione da sedici anni, è la co-fondatrice e motore della Brigata Basaglia, un progetto di supporto psicologico e sociale iniziato lo scorso marzo a Milano all’interno delle Brigate Volontarie per l’Emergenza nate in collaborazione con Emergency, e quasi interamente al femminile. In quel momento, infatti, Lula si accorge che la solidarietà si è attivata per gli aiuti materiali, ma non per la psiche. E che manca una rete.

Secondo l’ultimo congresso della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia, chi è venuto in contatto col virus sviluppa sintomi depressivi con un’incidenza fino a cinque volte più alta rispetto alla popolazione generale. Nei prossimi mesi potrebbero essere 800mila i nuovi casi di depressione e 150mila i casi correlati alla crisi economica e alla disoccupazione. Un’indagine del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi dice che nel 2019 solo un cittadino su dieci con problemi di salute mentale ha avuto accesso ai servizi pubblici. «Credo da sempre nell’ascolto psicologico. Ho lottato molto per l’accessibilità alla salute psichica, per unire la cura al fare rete. Quando staccavo dal mio studio correvo all’ambulatorio popolare per offrire sedute gratuite a chi non poteva permettersele. Ma in questa battaglia mi sono sempre sentita sola». Lula trasforma così un gesto semplice in un piccolo atto rivoluzionario: rispondere alla telefonata di chi ha bisogno di essere ascoltato. Gratuitamente. Insieme a due colleghi e collaboratori, Clara Sistilli e Gianpaolo Contestabile, collegato dal Messico, crea così una rete telefonica, un centralino autogestito che offre ascolto e attiva percorsi di risposta e sostegno.

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Greta Stella
Giada Fanti, psicologa milanese di 27 anni, risponde a una telefonata dalla casa del padre. «il digitale è stata un risorsa incredibile. Ma per me la videochiamata è difficile, si perde il gioco di sguardi. Preferisco la voce, ciò che abbiamo di più intimo».


Ognuno di loro ha una storia, una professione diversa e non solo legata alla psicologia, ma dona una parte del proprio tempo a chi ha bisogno, sia dirottando le chiamate sia facendo sedute psicologiche. Tramite un’app le telefonate arrivano sul cellulare degli operatori, tutti i giorni dalle 8 del mattino a mezzanotte, e vengono suddivise in tre codici - verde, giallo e rosso - e all’occorrenza passate a un gruppo clinico che offre un percorso di quattro incontri telefonici, o a strutture di supporto come i centri antiviolenza, i consultori, la Casa delle donne di Milano. Spesso chi chiama non ha trovato aiuto nelle istituzioni. C’è chi è ricaduta nel disturbo alimentare. Chi ha perso il lavoro e ha bisogno di una casa. Chi è rimasta bloccata all’estero a casa del fidanzato, imprigionata in una convivenza non cercata. C’è anche chi è stato rilasciato dal carcere dopo le rivolte, nonostante una pena lunga, e si è ritrovato in casa con l’anziana madre senza nessun accompagnamento. «Più che volontari mi piace definirci attivisti», spiega Lula. «All’inizio eravamo anche noi in una condizione di solitudine, di angoscia. L’aiutare l’altro diventa anche aiuto per se stessi».
La loro è infatti una storia che parla del bisogno di ascolto profondo, di vicinanza emotiva. Di cura. Di vite che cambiano da un momento all’altro e devono fare i conti con un mondo nuovo. Anche questo racconto, d’altronde, lo è. Nel silenzio del mio studio ascolto le loro voci mentre cullo mia figlia, nata da poco più di un mese nel bel mezzo della seconda ondata. Immagino i loro gesti e i loro sguardi che probabilmente dal vivo non incrocerò. Nonostante questo, nessuna sconosciuta mi è mai sembrata più vicina.

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Arianna Summo, detta Aria, light designer, è nata in provincia di Piacenza nel ’94 e vive a Milano. Ha deciso di dedicare parte del suo tempo a questa realtà perché «in città viviamo in enormi palazzi dove non conosciamo neanche il nostro dirimpettaio e questo non è naturale. L’uomo è progettato per essere in rapporto con l’altro. Oggi essere comunità è rivoluzionario».

«Quando è stato annunciato il primo Dpcm avrei dovuto festeggiare il mio 26esimo compleanno. Invece quella notte ha cambiato tutto». Giada, psicologa milanese di 27 anni, aveva da poco superato l’esame di Stato, avrebbe dovuto iniziare a lavorare al Centro PsicoSociale di Piazzale Loreto e si era iscritta all’istituto Irpa per diventare psicoterapeuta. «Il primo mese sono stata immobile, sospesa. Poi è morta mia nonna. Era in Basilicata, non ho potuto neanche salutarla. In concomitanza con questa perdita, la nascita della Brigata è stata un punto di vita, salvifico per gli altri e per me. È un egoismo buono: tu fai bene all’altro e questo ti fa stare bene». Lei, come le altre psicologhe, è nel gruppo clinico che si riunisce una volta a settimana sia per analizzare i casi sia per avere un momento di confronto in cui «parliamo di noi, di come stiamo. È questo che fa funzionare la Brigata. È la comunità che si autocura. Sino a che ci concentreremo solo sulla sofferenza dell’individuo in sé e per sé non ci sarà soluzione. La salute mentale è il grande rimosso del 21esimo secolo. La parola che ricorre di più nelle chiamate? Ansia. Termine oggi esacerbato, un sintomo che vuol dire tutto e nulla e che bisogna analizzare caso per caso. In questo momento storico è sana e ne abbiamo tutti diritto. Diventa disagio quando si disarticola da un evento e finisce per immobilizzarti. Oggi naturalmente pensiamo a proteggerci dal punto di vista fisico, ma abbiamo dimenticato che anche la salute mentale dovrebbe essere un diritto, a prescindere dalla condizione sociale».
Spesso rispondere a una chiamata significa anche solo aprire un varco, aiutare con l’atto di essere lì in ascolto. Si diventa anche intermediari, ci si mette in moto per riorganizzare la vita di chi ha composto quel numero. Le richieste di aiuto che arrivano ora sono infatti sempre più slegate dal Covid. Adesso chiama anche chi non ha più un lavoro, chi ha bisogno di un’abitazione. Per questo c’è il Gruppo Rete, pensato per creare o riattivare, appunto, una rete di supporto attorno alla persona con i servizi e le realtà solidali già presenti sul territorio. «In alcuni casi è come se ci sostituissimo ai servizi sociali. L’uomo è per sua natura un animale sociale. Questo tipo di aiuto si sarebbe potuto mettere in moto molto tempo fa. Purtroppo, c’è voluta una pandemia», dice Arianna, classe ’94, light designer e tecnico luci nel mondo del clubbing.

«Ma ora sentiamo che il resto della comunità può capirci, perché ci siamo in mezzo tutti». Figlia di una psicoterapeuta, rimasta senza lavoro, ha deciso di unirsi alla Brigata. «Una realtà che ha aiutato anche noi», aggiunge Carolina, psicologa milanese classe ’93. Dopo aver abitato a Venezia - dove ha fatto supporto psicologico per i soccorritori durante l’emergenza - si è ritrovata a Milano a inizio lockdown appena tornata da New York. Ora forma gli operatori e i nuovi arrivati. «La temperatura emotiva interna del gruppo è fondamentale. Anche chi tende la mano all’altro dev’essere tutelato».

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Greta Stella
Luciana De Angelis, Lula (nata nell’82, in Argentina, vive a Milano da molti anni) psicologa, è la cofondatrice della Brigata, di cui racconta: «abbiamo dovuto inventare un metodo che non esisteva. Nessuno era pronto per questa pandemia e per le conseguenze che avrebbe portato». Qui è sul terrazzo di casa che è diventato il quartier generale del gruppo.

Partiti in ottanta candidati nei primi incontri di formazione, oggi sono in ventitré: ventuno donne e due uomini. «Non è voluto, ma non è neanche casuale», commenta Lula. «In ambito psicologico c’è ancora la convinzione che sia la donna quella più incline ad ascoltare. È vero, ma è anche un retaggio patriarcale che non ci abbandona». Cadere nello stereotipo infatti è pericoloso. «Purtroppo, per quanto riguarda l’ascolto la donna è ancora vista come l’angelo del focolare. Quella cui spetta questo ruolo. Per me avere una piccola controparte maschile è molto prezioso», ribatte Giada in un’altra nostra telefonata. Un dato però è certo: «Gli uomini chiamano meno, o chiamano quando il problema è già sintomo. Il maschio chiede di essere ascoltato quando è già molto in difficoltà».

Foto in apertura: Carolina Camorati, classe ’93, nella casa dei genitori a Milano dove è tornata a vivere, è una delle psicologhe (tutte volontarie) della Brigata Basaglia, che per lei «è anche militanza. Una presa di posizione per innescare un cambiamento. Siamo noi i primi a dare l’alternativa che vorremmo».

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