Se non hai mai arrampicato in vita tua arrivare a casa di Manolo ti sembra una bellissima domenica di sole, una serie di tornanti che conducono vicino alle Pale di San Martino, capolavoro dolomitico consegnato al Patrimonio dell’Unesco. Se non hai mai arrampicato in vita tua e pensi a Manolo pensi alla pubblicità con un orologio molto tecnico al polso e dei leggings bianchi a pois. Se hai mai arrampicato in vita tua arrivare a casa di Manolo significa contare i tornanti che mancano, disegnare davanti a te, solo con lo sguardo, le vie che lui, su quelle Dolomiti dominate dal monte Totoga, ha ridisegnato con la cura di chi le montagne le considera «fogli bianchi piatti se nessuno ci vede dentro qualcosa. Prima di scalare per te forse le montagne erano solo quel bagliore di romanticismo, sublime, ma che non racconta niente di più. Ma quando inizi ad avvicinarti tocchi con mano che lì dentro delle persone hanno vissuto una vita, tra salire e immaginare una linea». Manolo, Maurizio Zanolla detto Manolo, ha 58 anni, una casetta issata su una collina dove riposano gli eroi di uno stile di vita che non è uno sport, casa costruita quasi a mani nude «una fatica tremenda, poi dopo nove mesi ho appoggiato la cazzuola e sono andato in Totoga a fare l’8b» .

Quando lui negli anni Settanta cambia l’alpinismo, fino ad allora ancorato alla diatriba perenne dell’ossigeno e non ossigeno diReinhold Messner in Himalaya, in Italia non si sa ancora cosa sia l’arrampicata spinta sui gradi (altro vocabolario per addetti ai lavori dove si gioca tutto il narcisismo e la paura dell’arrampicata moderna). Manolo ora ha 58 meravigliosi anni, due spalle che meriterebbero un’operazione «di cui reggerei anche una sola anestesia per farle insieme e non pensarci più» e una moglie, Cristina Zorzi, arrampicatrice dalla voce di miele che porta i due figli adolescenti a pallavolo e a suonare («no, non gli interessa per nulla arrampicare»), ma soprattutto una generosità rara. Schiettissimo, davanti al bottiglia di vino bianco «lo fa un mio amico: un anno gli può venir bene l’altro no, ma lui non ci mette niente dentro» iniziamo un racconto lungo un giorno. È considerato un eroe moderno, è considerato l’eroe dell’arrampicata italiana, ha spinto la difficoltà oltre (qual è l’oltre per Manolo?) e non ha scritto autobiografie bestseller. Per ora. La sua vita non è estrema. La sua vita è puntuale: «Tutti siete convinti che io abbia tanto da raccontare ma non è così. Io non credo di essere uno sportivo. Credo di aver fatto un percorso di vita». E in questo percorso di vita Maurizio Zanolla è diventato il Mago, Manolo.

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Il Mago in parete a inizio anni Novanta (courtesy photo Getty Images)


Le origini di Manolo sono quelle dei grandi: di quelli che non hanno nessun Santo in paradiso, o almeno in vetta, ma hanno la grazia divina nel corpo «per la mia famiglia la montagna non esisteva, era solo quella che superavano per andare a lavorare. Era solo una barriera geografica, una cosa inutile. Saggiamente: un contadino pensa che la montagna sia per le capre. Finiscono i prati finisce la vita. Sopra non c’è niente di questo - apre le mani verso le montagne che ci circondano - «Io però lo trovavo troppo strano: perché non conoscere la montagna che partorisce l’acqua del fiume che passa sotto casa?». A 16 anni Maurizio Zanolla è un ragazzo di confine, tra il Veneto e il Trentino. «Ho iniziato a scalare anche quando hanno iniziato a darmi fastidio il bar, la piazza, la scuola: trovavo tutto inutile. E sono rimasto attratto da quei contorni montanini. Io mi sentivo un disadattato allora e lo sono anche adesso». Ancora adolescente arriva a Kabul partendo da Feltre con poche lire in tasca. Dormendo ovunque. Pagandosi il pane provando anche a fare il panettiere. Poi torna, arriva in Puglia «con una fame tremenda, mangiammo un sacco di pagnotte». Il suo pane, però non saranno mai le vette degli Ottomila. «A 18 anni ero padre, il mio interesse quando avrei potuto era quello di stare vicino a un nucleo familiare. Non lo ritenevo importante prendere due mesi per andare in Patagonia. Le possibilità le ho avute, di fronte ai bivi la scelta è stata mia. E mi sono assunto le responsabilità e va benissimo così. Non ero un maniaco della scalata, ho scalato pochissimo, anche quando ero in forma magari pedalavo per cinque mesi. Pedalavo per giorni. Mi passava la voglia di pedalare e andavo a scalare».

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Manolo in Dolomiti (courtesy photo Maurizio Zanolla)

C’è un video che circola da tempi ben sospetti rispetto a Youtube in cui si vede il Mago salire, danzare, sulle rocce delle Dolomiti che, se le avete mai toccate, hanno il potere di farti soffrire come poche cose belle e inaccessibili sanno fare. Lui a un certo punto, a un certo grande punto vuoto sotto di lui, si toglie la maglietta perché fa molto caldo. È slegato, free solo, ovvero senza corda, senza rinvii, senza piani B. Quella è la parte, ufficialmente a partire dagli anni Ottanta, in cui Manolo diventa lo spettacolare scalatore che non usa protezioni. Sale, solo, costantemente. «Ho incominciato a sconvolgere le cose a non voler i chiodi, le protezioni, avevo 16 anni, una persona più grande di me ne aveva 35 e mi disse «farai la fine di tutti gli altri, ti ricorderanno pensando “guarda che stupido” Gli ho risposto: a me non interessa essere ricordato scalo così perché mi piace. E non mi ha più detto niente. Erano altri tempi io non riesco a capacitarmi di come i nostri genitori abbiano sopportato tutto questo. Sono consapevole anche che mia madre non abbia mai immaginato dove andassi. Non se ne è mai resa conto. Se invece intendi che il mio modo di arrampicare era diseducativo per gli altri no, questo non mi ha mai preoccupato perché io ero così e non ho mai imposto nulla a nessuno».

Scordate di poter accostare Manolo all’arroganza dei selfie-sportivi di oggi. Arrampicatori inclusi. L’arrivo all’estremo per Manolo è stato un corso della vita non una spettacolarizzazione «Uscire dalla strada 40 anni fa, significava trovarsi, dopo soli 10 passi, in un luogo selvaggio dove non ti avrebbero trovato per giorni e giorni: nessuno sapeva dove andavamo. Quella era avventura assoluta: era come uscire dalla porta di casa e andare in Himalaya senza che nessuno ti avesse mai visto. Era una cosa gratuita, potevi farlo». Quanto è durato questo periodo? «Tre anni e quattro. Non davamo notizie, non avevamo una tenda, un sacco a pelo. Se avevi la fortuna di sopravvivere imparavi subito a rispettare l’ambiente. L’arroganza è andata sotto ai piedi alla prima scalata. Il giorno dopo se ne era rimasta un briciolo via, sparita anche quella».

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Maurizio oggi, in un ritratto di Manuel Ferrigato

«La montagna mi ha salvato la vita. Chissà cosa sarei diventato senza, con gli atteggiamenti che avevo allora nei confronti della società. Per tutti noi che abbiamo iniziato a scalare in quel periodo (inizio ’70 ndr) penso che sia stata una bella fortuna andare in montagna. E tre volte di più sopravvivere. Devi essere umile e sapere che entri in luoghi dove tutto può succedere, non ti ci ha mandato il dottore o il capo fabbrica. È una scelta tua, di vita. Questo credo che la gente non riesca ancora a capirlo». Quando un tramonto reale smette di illuminare il legno, e mentre le oche starnazzano stuzzicate da due corvi («bisogna sempre stare attenti alle coppie di corvi, sono tremendi») Manolo cede il passo a un parabola alpinista di cui si sente protagonista. Ma non bisogna credergli. Un uomo che ha sconvolto il mondo con la prima via estrema italiana, l'8a nel 1980, non cederà mai al tramonto del genio «I limiti li ho superati quando ormai ero a un millimetro dal raggiungerli. Mi sono avvicinato per gradi. Bastava soffiare e il limite era superato».