Il mito, la Grecia. La città e i suoi abitanti. I cavalli, la natura morta, i ritratti. E, in chiusura, uno scorcio sul teatro. Otto temi per otto sezioni mettono a confronto – con oltre 150 opere – due fratelli del Novecento italiano: Giorgio e Andrea de Chirico (alias Alberto Savinio), in mostra, fino al 30 giugno, nella sede della Fondazione Magnani-Rocca a Mamiano di Traversetolo (Parma).

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Giorgio de Chirico, Ippolito e i suoi compagni su i monti dell’isola di Creta, olio su tela.
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Alberto Savinio, Idillio marino, 1927.


La sottotraccia suggerita dall’esposizione è un avvincente gioco di specchi in cui cogliere somiglianze e differenze, affinità e contrasti, più tutti gli indizi – a tratti impercettibili, spesso in primo piano – di un imprinting infarcito di filosofia, mitologia e letteratura condiviso dai due artisti per tutta la vita condotta da globetrotter tra la Grecia, la Germania, (molta) Parigi e Roma.

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emanuele tonoli
Giorgio de Chirico, Cavalli in riva al mare (Les deux chevaux), 1926, olio su tela.

Confrontare: è la password valida sin dalla prima sala, dedicata al mito. E per sottolineare il verbo-guida la mostra, curata da Alice Ensabella, Università di Grenoble, e da Stefano Roffi, direttore scientifico della Fondazione Magnani-Rocca, apre con un paragone eccezionalmente moltiplicato per tre. Prometeo, il Titano-eroe, incatenato alla roccia per aver rubato il fuoco a Zeus, è interpretato da De Chirico e Savinio, ma anche dal grande pittore simbolista Arnold Böcklin: dichiarato modello per entrambi i fratelli e presente a Parma (per una tranche dell’esposizione, fino al 9 maggio) con il Prometheus del 1882. La tela di De Chirico, firmata nel 1909, si riferisce esplicitamente a Böcklin: anche lui nasconde la sagoma di Prometeo tra gli elementi di un paesaggio naturale avvolto dai colori cupi di una tempesta. Savinio, invece, nel 1929, trasforma con ironia un impacciato nudo fotografico ottocentesco in una figura di dimensioni XL, quasi acefala: la testa sul maxicorpo, si percepisce appena. L’itinerario parte così e da subito rivela la cifra personalissima dei due fratelli immersi nell’avventura metafisica, ciascuno a modo proprio.

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Alberto Savinio, L’Astrologue meridien, 1929, olio su tela.

Guardare una accanto all’altra le opere dei “Dioscuri” – alias dei protagonisti sottolineato dall’esposizione parmense – è un viaggio non cronologico, ma visionario, decisamente intrigante, che accompagna alla scoperta di due approcci alla pratica artistica. Impegnato su più fronti Savinio, musicista, compositore e scrittore, approdato alla pittura a 35 anni. Granitico e deciso ad inseguire un effetto straniante, De Chirico, con il focus su tele e pennelli già adolescente. Dal mito nella prima sala – dove insieme a Prometeo sfilano Pericle, Achille, Venere ed Enea – si passa alla Grecia, il luogo dell’infanzia. Giorgio nasce a Volos nel 1888 e Andrea ad Atene, tre anni dopo. Quella terra, ancora profondamente intrisa di un immaginario classico e mitologico, è destinata a riemergere in dettagli della memoria traslati nei dipinti con il tema del viaggio sempre al centro e caro a entrambi: declinato con un timbro onirico e idealizzante in De Chirico e ludico-fantasioso in Savinio.

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Giorgio de Chirico, Grenades avec Buste ancien, 1923, tempera su tela.
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Giorgio de Chirico, Vestali con templi, circa 1936, tempera su cartoncino.

Poi c’è la città, illustrata dalle enigmatiche piazze d’Italia di Giorgio (uno dei suoi soggetti preferiti) e dai contesti mediterranei che fanno da sfondo alle apparizioni fantasmagoriche di Alberto. Ci sono gli arcinoti manichini – figure senza volto, in parte uomo, in parte statua, in parte oggetto – personaggi metafisici per eccellenza, teorizzati dalla penna di Savinio ancora prima (se ne ha conferma qui a Parma) che dal pennello di De Chirico. Sono esposti vicino agli ibridi di Alberto, che mettono in discussione l’immagine tradizionale dell’uomo e la reinterpretano con inserti zoomorfi dalla (consueta) pungente ironia.

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Giorgio de Chirico, Le consolateur, 1929, olio su tela.
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Alberto Savinio, Annunciazione, 1932, tempera su tela.


Inoltre sfilano i cavalli, tra gladiatori e centauri, le nature morte, tra naturalismo e astrazione. I ritratti intensi, con gli occhi fissi in quelli di chi li guarda, e – nell’ultima, ma più scenografica sezione che chiude la mostra – il teatro, con bozzetti, figurini e costumi delle meraviglie, prestati per l’occasione dal Teatro alla Scala di Milano. Dai disegni alle stoffe – tra influenze antiche (la pittura veneta del Cinquecento e il Barocco in De Chirico) e le Avanguardie (Cubismo in testa in Savinio) – sono le opere perfette per chiudere l’affascinante gioco delle differenze in mostra alla Magnani-Rocca.