A lezione di rispetto dagli alberi, che attraverso il fenomeno della “timidezza delle chiome” ci insegnano quanto sia doveroso non violare lo spazio altrui

L'afa estiva, unita al fatto che la mia pelle diafana mal sopporta l'esposizione solare, mi induce in questa stagione a rifugiarmi nei boschi, dove il silenzio profuma di resina e la natura allevia le vessazioni di un'agenda implacabile. È stato proprio durante una lunga passeggiata in salita, alzando lo sguardo in cerca di un respiro profondo, che mi sono accorta del fitto ricamo formato dalle fronde degli alberi, reso ancora più nitido e affilato dalla contrapposizione cromatica con il cielo terso. Ma il dettaglio strabiliante è che quei rami carichi di fogliame, costretti a sfiorarsi se mossi da un improvviso alito di vento, sembravano attenti a non toccarsi nei momenti di quiete, come sospinti da un pudico riguardo. Si tratta, in realtà, di un fenomeno noto fin dagli anni Venti, battezzato nel 1938 dal botanico francese Francis Hallé "timidezza delle chiome", diffuso soprattutto tra gli eucalipti, i pecci di Sitka (presenti nell'America del Nord) e i larici del Giappone, in relazione tra di loro o mescolati con altre specie arboree. Da un punto di vista strettamente funzionale questa separazione serve a ottimizzare l'esposizione alla luce e la fotosintesi, scongiurando la completa ombreggiatura della zona interessata, nonché la diffusione di insetti dannosi. Per noi comuni mortali si traduce, invece, in una grande lezione di prossemica, ossia di rispetto dello spazio altrui in tutte le sue accezioni (geografica, fisica, verbale). Un invito accorato alla discrezione, al tatto e alla deferenza, per opporsi alle moderne, violentissime "invasioni di campo".