Il film “In the Mood for Love” ci ricorda quanto fosse poetico l’amore prima dei social


Ci sono film destinati a lasciare un segno indelebile nella memoria collettiva e che, rivisti a vent'anni di distanza, risultano non solo ancora affascinanti, ma addirittura stupiscono per il loro messaggio in rinfrancante controtendenza. Nel 2000 usciva il capolavoro di Wong Kar-wai In the Mood for Love, traslazione cinematografica del concetto di Sehnsucht: parola-chiave del Romanticismo tedesco, traducibile come quel particolare struggimento generato dal desiderio dell'irraggiungibile. Ed è una passione che consuma senza essere consumata quella destinata a travolgere, nella finzione narrativa, le vite degli splendidi attori Maggie Cheung e Tony Leung.

Un amore platonico fatto di assordanti silenzi, sguardi obliqui, mani sfiorate nella penombra. La pienezza racchiusa nell'assenza. Un'astinenza sublime proprio perché sublimata, incomprensibile agli occhi di questa moderna era digitale che tutto brucia e bulimicamente consuma, ma condannata a non raggiungere mai un reale appagamento. L'ascolto sintonizzato sulle percezioni sottili contrapposto all'odierno vacuo vociare degli sproloqui "social" o degli straripanti messaggi vocali.

La poesia assurge a spiritualità assoluta nell'epilogo della storia, quando il protagonista – nel rispetto di un'antica leggenda – decide di confessare a posteriori il suo sentimento nella crepa di un tempio di Angkor, in Cambogia, sigillandola poi con una zolla di terra, affinché il segreto rimanga tale. Lo spettatore può solo immaginare quelle parole sussurrate, coperte da un sommesso suono di archi, assaporando la loro privata sacralità. E riflettere sul fatto che oggi le dichiarazioni importanti si liquidano con un post.