La pratica stoica ci insegna a non essere schiavi del risultato finale e a coltivare la serenità interiore: condizione necessaria per la vera felicità

Se potesse reincarnarsi al tempo presente, farebbe di sicuro concorrenza al guru Anthony Robbins per carisma e moltitudine di seguaci. Sto parlando di Epitteto (50 – 125 d.C.), esemplare self-made man assurto dalla condizione di schiavo a quella di stimato pensatore, nonché illustre esponente della corrente dello stoicismo, con Seneca e Marco Aurelio.

I suoi insegnamenti sono di una tale modernità da aver ispirato al filosofo Massimo Pigliucci il libro Come essere stoici. Riscoprire la spiritualità dei classici per vivere una vita moderna (Garzanti). Premessa fondamentale: la vera saggezza consiste nel saper discernere tutto ciò che rientra nell'umana capacità di controllo da quanto esula dalla volontà personale. Se l'obiettivo è sentirci in pace con la coscienza e, in virtù di questo, siamo disposti a impegnarci al massimo, non saremo più assoggettati al risultato, consapevoli che il successo non dipende solo dalla bravura ma da mille, capricciose variabili.

È il raggiungimento dell'atarassia: l'imperturbabilità dell'animo ottenuta seguendo la pura ragione anziché le passioni (o le divoranti ambizioni) e dove la soddisfazione scaturisce semplicemente dall'aver compiuto il proprio dovere. Nel caso di una "sconfitta", le amare recriminazioni lasceranno spazio all'indulgenza, l'autoflagellazione a un'analisi serena, finalizzata alla comprensione di quanto accaduto e alla crescita individuale. In quest'etica esistenziale il rispetto per se stessi e gli altri assume un ruolo nodale. È un pensare all'antica che rende più luminoso e civile il futuro.