“Avevo poco più di vent’anni, chiamai i miei genitori e dissi: non voglio più studiare giurisprudenza, voglio che la mia vita sia la cucina”. La schiettezza con cui Antonia Klugmann ti racconta la premessa della sua storia, te la fa sentire così vicina che quasi sembra la tua (ehm…). “Non fraintendermi: amo studiare, non smetterei mai. Semplicemente, volevo dedicare tutte le mie energie e la mia determinazione alla cosa che mi appassionava di più al mondo”. Storia di cuore e di coraggio, quello che ci vuole per far deragliare volontariamente un percorso intrapreso e proseguire su nuovi binari. Sconosciuti sì, ma tanto tanto elettrizza(n)ti. Questo è il punto di partenza della carriera di Antonia Klugmann, chef stellata triestino-friulana e nuova giudice a Masterchef 7.

Questo è il punto di partenza di Di cuore e di coraggio. La mia storia, la mia cucina (Giunti Editore), primo libro di Antonia Klugmann che al seguire il corso della vita ha preferito quello dell'incoscienza. Le 224 pagine, presentate martedì 30 gennaio a Milano alla Libreria Rizzoli Galleria, di colei che a 26 anni era già la titolare del suo sogno, era già una delle prime (e poche, ahinoi) cuoche professioniste in Italia. Quaranta gli anni sul passaporto, 34 quelli vissuti dietro i fornelli, 18 sono i coperti del suo ristorante 1 stella Michelin L'Argine a Vencò, la sua casa tra le colline in provincia di Gorizia. Io guardo le Alpi e la stazione, lei il suo orto meraviglioso, forse siamo sotto lo stesso cielo bigio, ma al telefono la voce calma e calda di Antonia mi fa sentire un po' più vicina agli abeti dove tutto inizia.

Che cuore, e che coraggio…
Mettersi in discussione (e farsi delle domande) è il primo passo verso una grande conquista.

Per un anno della tua vita sei stata costretta al riposo più assoluto per via di un grave incidente. In quel momento hai scoperto l’orto.
Mi sentivo con le spalle completamente scoperte, non lavoravo, non avevo contatti. Dovevo trovare qualcosa di concreto per trovare la forza di resistere all’inattività. Mi è sembrato così naturale guardare fuori dalla finestra…

La prima cosa che hai piantato?
All’inizio ero totalmente ignorante in materia, non avevo neanche idea di che forme avessero certe piante. L’ortaggio che mi ha sconvolto di più è stato il pomodoro, finché non lo pianti non hai idea di quale sia la sua evoluzione. Prima di allora l’avevo solo visto al mercato, quando da bambina mio nonno pugliese mi portava a fare le passeggiate.

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Mattia Mionetto

Come hai tradotto Antonia Klugmann in un menù.
La cucina è il mio tornasole, rispecchia i miei cambiamenti e i miei personalissimi gusti. E non è vero che il palato di un cuoco è immobile. Io vado a periodi: a volte sono più tendente all’amaro, a volte al dolce, a volte agli squilibri voluti.

Il tuo lavoro coincide con la tua vita e reputazione. Come si fa ad affidarlo a collaboratori spesso giovanissimi?
Eh… Nonostante la cucina a vista, molto spesso il cliente non capisce, pensa che un menu sia solo frutto della tua mano e della tua testa. Invece, un professionista deve essere in grado di delegare. La cucina è la somma delle forze che ne sono impiegate, non è vero che un collaboratore vale l’altro! Ma con un po’ di affiancamento e tanta fiducia reciproca ci si può iniziare a lavorare.

Hai mai desiderato di ripudiare la stella?
Ogni chef ha questo “problema” legato ai premi. Un problema che ha a che fare con la paura di perderla e la consapevolezza di essere fallibili. È strano come noi cuochi abbiamo delegato agli altri persino la nostra reputazione... Dovremmo creare una rete di solidarietà tra di noi per affrontare attacchi sconsiderati e critiche spesso ingiustamente esagerate.

Cosa ne pensi di chi, un po’ per mancanza di cultura culinaria un po’ per impossibilità economica, ha dei forti pregiudizi sulla - passami il termine anni Novanta- “haute cuisine”?
Che in Italia c’è una sorta di disconnessione, di distanza dall’alta cucina. Ad esempio, in Francia anche chi fa un lavoro molto modesto, almeno una volta l’anno, si regala una cena in un bel ristorante. Mi auguro che i libri e le trasmissioni in tv come Masterchef la rendano più appetibile e “concreta” agli occhi della gente.

Chi ti ha trasmesso la passione per la cucina?
Tutti e quattro i miei nonni, mi hanno sempre stimolata a fare e assaggiare in cucina.

La tua "madeleine proustiana"?
Ricotta e silene (un’erba di campo, ndr) che ho assaggiato in un ristorante a 18 anni. Ricordo di aver pensato: “Com’è possibile che una cosa così semplice sia anche così buona, qual è il segreto?”.

Hai scelto di chiudere il ristorante durante la registrazione di Masterchef.
E mi sono beccata critiche pure per questo! Il fatto è che la cura che ho verso i clienti è quasi personale, non mi sentivo adeguata ad abbandonarlo “al suo destino” mentre registravo il programma.

Come l’hanno presa le persone che lavorano con te?
Come un’opportunità di crescita e di investimento personale. Sono stati in stage in altri ristoranti. Siamo tornati più carichi di prima!

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Mattia Mionetto

C’è un’Antonia prima e dopo Masterchef?
Sì. Cioè non mi hanno fatto nessuna lobotomia, ma un’esperienza così diversa dalla quotidianità ti sconvolge. E se poi sai rielaborarla in maniera positiva allora ti fa crescere.

L’Argine A Vencò in una parola?
È casa. È il luogo dove cerchiamo di esprimere chi siamo, i nostri desideri, le nostre aspirazioni.

Non usi tonno e foie gras, ma frattaglie. Curioso...
La mia cucina è l’espressione del desiderio di “non fare danni”. Mi auguro che la sensibilità all’ecosostenibilità si sviluppi in tutti, chef e clienti. Amo preparare i miei piatti con “quello che trovo” dal pescivendolo.

E la tua sensibilità come si è sviluppata?
Grazie ai libri di Dan Barber. Mi hanno aperto gli occhi sulla responsabilità che deve avere un cuoco. Prima ancora delle mode, prima ancora delle questioni etiche e produttive, è tutta una questione di gusti.

C’è un piatto che ti suscita ancora timore reverenziale?
No.

Il piatto su cui stai lavorando al momento.
È a base di grano saraceno, pollo e sedano rapa.

Ingredienti semplici…
Sì, ma la complessità (e il prezzo) di un piatto non dipendono tanto dall’ingrediente ma dal lavoro che c’è dietro.

Cosa sopravvalutiamo della cucina.
Mi fa molto strano quando un ingrediente diventa “colore di stagione”. Mi turba. La cucina è un mondo più complesso della moda del momento.

Complesso quanto?
Tanto quanto ti faccia riflettere per intere settimane solo sulla preparazione di una salsa o la composizione di un ingrediente.

Piatto preferito.
La pasta al pomodoro.

Dolce preferito.
La crostata di frutta. Una frolla fatta bene con crema pasticcera e frutti di bosco.

Il formaggio più buono del mondo.
Inesistente, impossibile scegliere.

Vino preferito.
Idem. Impossibile sceglierne uno con la ricchezza che c’è in Italia soprattutto. Qui nel Collio ogni produttore fa un vino completamente diverso dall’altro. Ricchezza = mancanza di omologazione. Bellissimo.

L’ingrediente che deve sempre esserci nella tua cucina.
Il pomodoro in tutte le salse, letteralmente. D’estate in purezza, d’inverno invece pelati, centrifughe, succhi e passate.

È vero che il cliente ha sempre ragione?
Il cliente è il motore del ristorante, non me lo dimentico mai. Non ci credo proprio sempre, ma il rispetto totale è basilare.

Cosa pensi di quelli che al ristorante fotografano il piatto in tavola?
Penso che il ricordo del momento (o il trofeo da esibire…) è bello, ma gustare un piatto alla temperatura giusta è impagabile.

Ma il sorbetto di abete, come ti è venuto in mente?
Guardando fuori dalla finestra, abbiamo un abete splendido davanti al ristorante.

E che sapore ha?
Di estate e inverno contemporaneamente.

courtesy photo Giunti Editore