Ci sono dei venerdì che iniziano inscatolati in un vagone del treno, imbottigliati nel traffico, accartocciati sui sedili di un tram. Abbandonando un piumone per cercare conforto tra le trame di uno sciarpone in cachemire. Ci sono venerdì che iniziano senza quella frenesia convulsa, tipica delle città che non regalano niente a nessuno. Ci sono venerdì che al posto del fiato del vicino di tram sul collo, hai solo il vento fresco che si trova solo in quota. Ci sono venerdì, che vorremmo estendere a tutti i giorni della settimana, che iniziano in modo meno mondano e più montano... L'autostrada è un formicaio, tranne che nella mia corsia. Oggi non vi farò compagnia, oh voi ch'entrate nella bolgia dei meneghini con la ventiquattrore, oggi scrivo un canto paradisiaco. La meta del mio andare adagio (mooolto adagio) è Bormio. La città delle terme antichissime e degli spatzle burrosissimi, la città dei calici di rosso diretti e onesti e dei bicchieri bassi colmi di amaro alpino. Bormio è la città dell'amaro Braulio, il Braulio è l'essenza di Bormio. Dove essenza non è metafora, ma storia vera. Le botti in rovere veneto dove invecchia da oltre 140 anni si trovano proprio sotto il suo centro storico, tra via Roma e vicolo Vittorio Veneto. Non c'è casa dove un pasto non finisca nella meditazione del color caramello limpido. Non c'è abitante che non abbia ricevuto un sorriso gentile dal signor Egidio, dal figlio Edoardo, dall’antenato Dottor Francesco Peloni, il farmacista che nel 1875 sperimenta quel miscuglio alcolico.

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Il Braulio è l'essenza di Bormio e di tutto il Paese, di quei posti che ti fanno sventolare il tricolore in petto non appena ci metti piede. Io, ad esempio, ho sentito quella bandiera sventolarmi tra le costole (e le narici e le papille gustative) quando ho mosso il primo passo dentro le cantine del Braulio. Facciata in pietra fuori, tripudio di caldi legni dentro. Si varca l'uscio e ci si immerge, si fa snorkeling, tra i profumi erbosi, confortevoli, iconici dell'amaro alpino. Il mio Virgilio, qui, è Edoardo l'erede di Egidio Tarantola Peloni, patron della “maison” recentemente venuto a mancare. Ci guida quasi per mano tra gli antri di "casa sua", una casa che sa e che è storia, ma che non si adagia sugli allori opss sulle bacche di ginepro. Per questo, riapre oggi le porte delle storiche cantine dopo un accurato lavoro di ampliamento di circa 1.650 mq, che si traduce anche nell’aggiunta di 166 botti di rovere di Slavonia.

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Chissà a cosa pensa, Edoardo, quando nella farmacia di famiglia (140 anni fa il Braulio non era considerato una coccola da fine pasto!) dice quella messa laica, fatta di rituali sacri, famigliari ma mai solo meccanici. E bilanciando e mescolando fra loro le erbe che sono l'anima dell'amaro, si fa custode di un segreto tramandato di padre in figlio dal 1875. Stessa ricetta, stesso territorio, stesso metodo di produzione: gli elementi-anima del Braulio sono semplici tanto quanto è difficile perpetrarne il successo ai tempi di gin per millennials, mixologie avventate, cocktail molto virali e, per questo, dalla vita e trend molto brevi. Sorpassiamo le cantine di fine Ottocento, ampliate poi negli anni 70, e attraversiamo il reparto infusione. Qui scopriamo quattro delle N erbe aromatiche (sì, la ricetta del Braulio è segretissima per davvero) che compongono l'amaro della famiglia Tarantola Peloni: l'achillea moscata (anche detta erba iva) che cresce a 2 mila metri d'altezza, la radice di genziana, l'assenzio, le bacche di ginepro. Alcune vengono macinate, altre battute al mortaio, proprio come farebbe un erborista ottocentesco. Adesso si lasciano in infusione in acqua e alcol per 20-30 giorni, si aggiunge lo zucchero per dolcificare ed il caramello bruciato per donare quel colore che è un marchio di fabbrica. Il pre-amaro è ora pronto per iniziare l'invecchiamento in botte, lo scopo è far ossidare ovvero far "respirare" il liquido. Si attendono 15 mesi per la versione "classica", 24 per quella Braulio Riserva. Dopo l'invecchiamento, l'amaro ormai pronto viene trasferito in serbatoi refrigerati a -9 gradi, filtrato e imbottigliato negli stabilimenti piemontesi di Campari.

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Mi siedo a tavola, di fronte a me le Alpi ancora innevate, sotto il naso un calice di Sassella e una lunghisssima serie di formaggi di malga (accompagnati da una lunghisssima serie di mieli e confetture biologiche). Mi siedo a tavola, di fronte a me le montagne e Marisa e Piero, due signori di mezza età. Mi guardano con fare complice, come di chi sa e vuole raccontare, alzando il bicchiere come per accennare ad un tiepido brindisi. Sorrido. "Io ho lavorato qui per 35 anni", fa lei. "Mio marito 50”, e gli dà un buffetto sul braccio. "Tutta la nostra vita si è svolta tra queste cantine, fianco a fianco con il signor Egidio. Un uomo d'altri tempi...e modi. Non ci ordinava cosa fare, ci diceva piuttosto: per favore, quando hai tempo me lo fai?". La rimbocca Piero: "E quando veniva Natale? Non portava regali solo ai suoi nipoti ma a tutti i figli dei dipendenti”. Marisa e Piero hanno gli occhi lucidi e un sorriso gentile, come quelli di chi ha trascorso la vita nel giusto, nella semplicità, la fede nelle proprie mani e nelle tradizioni di famiglia che sono quelle di un paese intero. “No, non andavamo a lavoro, era come ritornare in una seconda casa ogni mattina".

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