La favola dell’imprenditore venuto dal nulla, self made man che sbanca mercati mondiali e Borse, è tutta americana. Ma il core business, per restare in tema finanziario, è tutto italiano. Anche se ha un nome americano ed è diventato sinonimo di globalizzazione (pro e contro inclusi). Howard Schultz Starbucks l’ha creata grazie alla tradizione italiana e a questa deve il suo successo. Il concetto del bar che diventa mondiale. Starbucks per Howard Schultz doveva essere, ed è, tutto questo: produttività anche in un apparente momento di relax, produttività per i numerosi freelance alla ricerca di un paradiso social(e) dove catapultarsi fuori di casa. Lui l’ha creata, lui l’ha lasciata, lui l’ha ripresa in mano e lui ha annunciato l’addio ufficiale, definitivo, ad ogni carica. Howard Schultz CEO di Starbucks non lo è più dal 2017 e a giugno 2018 ha dichiarato che avrebbe rinunciato anche alla carica rappresentativa di presidente di Starbucks. Dando così un via immediato ai rumors che lo vogliono candidato alle elezioni del 2020 in quota Dem, contro l’attuale POTUS Donald Trump. Howard Schultz ha replicato via New York Times con parole che sono la quintessenza della sua discrezione: “Ho intenzione di pensare a una varietà di opzioni e questo potrebbe includere un ruolo pubblico, ma sono ben distante dal prendere qualunque tipo di decisione sul mio futuro”. Una frase che dice tutto e niente, nella migliore delle diplomazie.

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Il ceo di Starbucks all’opening di un negozio a Manhattan nel 1999

Howard Schultz Starbucks biografia. Nato nel 1953 a New York e di origine ebraica, non ha mai nascosto il suo percorso sin da piccolo: famiglia poverissima, la vita nelle case popolari, padre ex militare e camionista, madre disoccupata, una sorella minore e un fratello maggiore. La famiglia Schultz di certo non navigava nell’oro. La fuga dalla povertà per Howard Schultz giovane è lo sport (baseball, football e basket) che gli insegnano la disciplina e la costanza. L’università (si iscrive a Comunicazione) la porta avanti proprio grazie ad una borsa di studio per meriti sportivi, ed è il primo della sua famiglia con la corona d’alloro in testa nel 1975. Entra a lavorare alla Xerox e fa rapidamente carriera come commerciale, ma preferisce cambiare e si trasferisce in un’azienda svedese, la Hammarplast, che produce macchine per il caffè filtro. È il primo inconsapevole e tangenziale incontro di Howard Schultz con il caffè. Ci vorrà l’anno di grazia 1981 perché sulla sua strada di curioso entri dalla corsia principale una piccola compagnia di Seattle dedita alla preparazione del caffè: tra la Starbucks Coffee Company e Howard Schultz è amore a prima annusata, tanto che il giovane rampante si tiene in contatto costante con l’azienda e si propone per lavorare con loro. Nel frattempo c'è la vita privata: Sheri Kersch è moglie di Howard Schultz. Nel giro di pochi mesi è assunto come direttore marketing di Starbucks e Howard Schultz entra nella fase due del suo rapporto con la caffeina: quella di imprenditore.

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C’è Milano, in mezzo. Milano, Italia, anni 80. In viaggio per Starbucks Howard Schultz nota la peculiarità dei bar e dei caffè autentici della città italiana più rampante dell'epoca. Luoghi di pausa per un espresso al bancone o un cappuccino schiumoso al tavolo, ma anche posti dove incontrarsi, parlare, confrontarsi in modi diversissimi, abbattendo ogni tipo di barriera sociale. L’intuizione di un caffè vecchio stile europeo, di quelli ispirati alla classicità antica, illuminista di Cesare Beccaria e compari. Bar dove sedersi, chiacchierare, persino lavorare prendendo appunti (i cellulari erano ben lontani dal notificare urgenze) o semplicemente leggere un giornale e pensare per conto proprio. È l’ispirazione perfetta e Schultz torna negli USA carico di inventiva: ma dai vertici di Starbucks non sono tutti d’accordo. Il primo tentativo di Starbucks Coffee Bar va a buon fine, ma mancano la costanza e la volontà di replicare il format, non intuendone le potenzialità. “Non siamo un ristorante”, gli rispondono tra le righe. E Schultz, amareggiato, nel 1985 si licenzia dall’azienda, intenzionato a sperimentare per conto suo quella che gli sembra un’idea vincente.

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Ma è un momento difficilissimo: la moglie di Howard Schultz è incinta e i soldi sono troppo pochi per fare il grande salto. Lo aiutano gli ex colleghi Jerry Baldwin e Gordon Bowker, cofondatore di Starbucks, che gli prestano 40mila dollari; altri 100mila arrivano da un amico medico impressionato dalla sua testardaggine. Nasce Il Giornale di Howard Schultz, che prende il nome proprio dal quotidiano milanese ed è il locale Milano-inspired che voleva lui: caffè, gelati, discreti posti a sedere e musica operistica di sottofondo per regalare “un’esperienza tutta italiana”. Il successo è lento ma costante: e arriva un nuovo regalo per l’intraprendente manager. Nel 1987 il vecchio management di Starbucks decide di vendere la divisione retail dei caffè Starbucks proprio a Schultz: ora c’è anche un nome parecchio accattivante e un know-how notevole da far fruttare in tutti i modi. Arriva l’espansione definitiva in tutti gli Stati Uniti: la formula di Starbucks non comprende il franchising, resta tutto all’interno della proprietà principale, l’azienda di Seattle. È un trionfo. Gli yuppies ci vanno a discutere di affari, gli studenti a preparare esami e amoreggiare. I caffè Starbucks sono il tratto distintivo dell’America e contribuiscono a quella cultura del caffè che oggi molti hipster vantano di avere.

Il lavoro di Howard Schultz in Starbucks è instancabile: fino alla fine del Secolo è completamente assorbito dal suo ruolo di amministratore delegato, dato che dal 1992 l’azienda arriva a essere pure quotata alla Borsa di New York. Nel frattempo è diventato papà: Howard Schultz figli ne ha due, Jordan (nato nel 1986, è giornalista all’HuffPost USA) e Addison (nata nel 1989). La notizia che squarcia il 2000 è che Schultz abbandoni il posto di CEO per concentrarsi su quella di chief global strategist: la voglia di portare Starbucks in tutto il mondo è più forte di lui. E lo fa con una caparbietà e una visione di gioco uniche, acquisendo localini ex storici, individuando posti perfetti e corner fondamentali per la visibilità del marchio. Europa, Asia, Australia, Sudamerica: lentamente Starbucks diventa sinonimo di coolness in tutto il mondo, da Seattle con furore. A decretarne la fama imperitura è Britney Spears, spesso fotografata con un frappuccino in mano durante le sue passeggiate. Ma non mancano altre star televisive e musicali che scarrozzano la sirena bianca in campo verde in giro per le strade americane.

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Ma in USA le cose iniziano a precipitare: il format ha mostrato qualche limite che lo sta facendo lentamente declinare. Nel 2008 Schultz, allarmato anche dai mercati, riprende il posto di CEO, fa saltare qualche dirigente e riorganizza completamente il lavoro nell’azienda: assume un capo della divisione tecnologica per venire incontro alle novità del nuovo millennio, istituisce i corsi di formazione sul caffè obbligatori per i dipendenti e si inventa la Starbucks Reward Card per i clienti più affezionati. I numeri tornano in positivo, la fama di Starbucks continua a crescere: la politica green ecosostenibile, tra cui la promessa di eliminare le cannucce di plastica per i suoi coffee-to-go, e quella di attenzione alla salute dei dipendenti transgender fanno il resto Qualche polemica non è mancata, l'ultima in ordine di imbarazzo è stata quella che ha riguardato grave episodio di razzismo in Starbucks ai danni di due clienti neri in un locale di Philadelphia, con conseguente pugno duro di Schultz: che ha obbligato 8.000 esercizi a chiudere per un giorno e ha pagato un corso intensivo di formazione a 175mila impiegati perché non si ripetessero episodi del genere. Il tutto mentre a Seattle si sperimentava un nuovo format alcolico e mancava praticamente solo un posto da colonizzare, quello del cuore, quello dove era cominciato tutto: Starbucks in Italia. La notizia è ufficiale da tempo, manca solo l’inaugurazione di Starbucks Milano. La città dove veramente iniziò tutto. La città dove nel 2018 si chiuderà finalmente il cerchio inventivo di Howard Schultz.