Siamo ciò che mangiamo, scriveva Ludwig Feuerbach nell’800. E il cibo è politica e cultura più di ogni altra cosa, aggiungerebbero i foodie consapevoli nel 2018. Il filosofo tedesco aveva visto lungo, lunghissimo, sugli ultimi 40 anni di evoluzione della cultura gastronomica, ma più lungo di lui ci ha visto chi queste credenze le ha messe in pratica ovvero Ruth Reichl. Solo un nome di lontane ascendenze ebraico-tedesche, ma nel mondo del cibo (e della cultura gastronomica come disciplina ferrea) è venerata come una dea. Ruth Reichl anni 70 compiuti nel 2018, più di 40 di carriera pionieristica nel giornalismo culinario, è la donna che ci ha insegnato a leggere di cucina, a capire perché mangiamo, e perché amiamo certi cibi. La storia di Ruth Reichl è una di quelle ispirazioni per cambiare vita quanto per riflettere sul gesto più quotidiano e automatizzato del mondo: mangiare. Il suo motto interiore è riassunto in Se non sai cosa fare, studia. Poi inventalo.

Non in senso di fake news, intendiamoci. Proprio nel senso del mestiere creato dal nulla. Prima di Ruth Reichl il lavoro di critica gastronomica praticamente non esisteva. Figuriamoci la critica gastronomica creativa, giocata, spudorata, fatta di tentativi e sperimentazioni che sfociavano in filosofie (e crociate storiche). Prima della penna sveglia e intelligente di Ruth Reichl, scrivere di cucina equivaleva ad avere una collezione di ricette sui giornali. Una sezione apposita per semplificare la vita alle care massaie americane che volevano leggere qualcosa di diverso dalla tradizionale ricetta del pollo fritto o del tacchino del Ringraziamento. La rivoluzione culinaria era appena agli albori. Ma ci voleva la testardaggine della giovanissima newyorkese figlia di due ebrei scappati dai nazisti, con formazione e laurea in storia dell’arte all’università del Michigan e poi approdata sulle colline di Berkley col primo marito Douglas Hollis per mettere in moto la rivoluzione. Sono gli anni 70, c'è il Vietnam, il movimento hippie, la reazione all'industrializzazione del cibo e al concetto di benessere economico che passa attraverso la semplificazione del bisogno. I supermercati racchiudono tutto questo.

Il cibo per Ruth è una cosa seria: è politica, cultura, informazione.

Sulla costa ovest degli Stati Uniti dove si è trasferita dopo la laurea, Ruth Reichl è chef e co-proprietaria nel ristorante-comune Swallow Restaurant. È questo a spingerla ad approfondire il discorso: la cucina americana è tradizionale e tradizionalista, pochi picchi di curiosità e sperimentazione. Tanto preconfezionato e pronto. Ruth ama cucinare ma ama anche scrivere, nel 1972 pubblica il primo libro Mmmmm: A Feastiary. Un discreto successo e Ruth capisce che c’è bisogno di un lavoro più intenso di educazione al gusto. Specialmente per gli americani adusi alla grilled meat e poco altro. Il lavoro deve essere culturale, esplicativo, deve entrare nelle case a intervalli regolari. E deve scatenare la curiosità della conoscenza. Per quattro anni lavora al New West Magazine occupandosi di food writing: Ruth Reichl inaugura una carriera in una disciplina completamente vergine. Racconta il cibo, la sua importanza nutrizionale, di gusto, il suo ruolo nella cultura. Lo fa con semplicità e una verve da jazzista della parola. I giornali più grandi si accorgono di quella ragazza con la frangetta che viene da New York e ama San Francisco in modo viscerale.

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Patrick McMullan//Getty Images

La chiamata del Los Angeles Times cambia il corso delle cose. “Mi cercano per il posto di critica dei ristoranti. E io ho due problemi: sono una di Berkley e odio Los Angeles, si sa che le due città si detestano” racconta la Reichl in un saggio breve (e bellissimo) scritto per la raccolta The Art Of Making Magazines pubblicata dalla Columbia University. “Il secondo, è che è un giornale. Io sono freelance da sempre, l’idea di lavorare in un quotidiano mi fa strano. Alla fine mi convincono e ci vado”. Ruth non è una giornalista tout court, ma è molto brava a raccontare storie e soprattutto ha l’umiltà di mettersi a studiare da zero. È di nuovo in un territorio inesplorato, tutto da costruire secondo i propri canoni. “La sezione food era come un piccolo magazine. C’era una competizione molto forte tra le catene di supermarket per fare pubblicità, ognuno prendeva tra le 8 e le 10 pagine a settimana. Praticamente avevamo 60 pagine sul food. Avevo anche uno staff enorme, uno studio fotografico e una cucina. Ho dovuto reimparare tutto perché non avevo idea di come fare l’editor della sezione food”. All’epoca Ruth Reichl ha poco più di trent’anni e una volontà inesauribile: riesce a rivoluzionare davvero l’impostazione delle pagine sul cibo, abbandonando le civetterie che gli editor precedenti pensavano fossero indispensabili per il pubblico femminile. “Nei mesi successivi trasformammo la sezione food in qualcosa di politico che avesse davvero a che fare con la comunità, ed era qualcosa che nessuno aveva visto prima”.

"Non voglio che sia una cosa solo per donne, anche gli uomini mangiano. Tutti mangiamo.

Il cibo per Ruth è una cosa seria: è politica, cultura, informazione. Lo ripete come un mantra: food-is-political, food-is-sociological, food-is- really-important. Questo conta, non le dosi del ciambellone per casalinghe disperate. Meglio, non solo: se la massaia delle periferie di LA si rende conto che comprare un tipo di farina rispetto ad un altro è una scelta politica, per lei è già un grosso passo avanti nella pedagogia del cibo. Ma non tutti capiscono la portata di ciò che vuole fare: Ruth Reichl reagisce a modo suo.“Se pensi che mi metta a scrivere ricettine trovati qualcun altro, non è qualcosa che farò” disse duramente al suo editore Shelby che la pregava di non snaturare la sezione food. “Voglio coprire argomenti di politica e agricoltura e sociologia. Non sarò felice finché tutti a Los Angeles non leggeranno questa parte del giornale" spiegò. E, a maggior ragione, non voleva perpetrare lo stereotipo della donna angelo del focolare. "Non voglio che sia una cosa solo per donne, anche gli uomini mangiano. Tutti mangiamo. Tutti dovrebbero leggere questa sezione”. Il cibo non ha nulla a che fare con dati come età, soldi, location: per Ruth Reichl le ricette che funzionano col suo pubblico sono quelle che spingono il cervello a conoscere come il cibo stesso sia importante. Non importa che si parli di ristoranti di altissimo livello o dell’amato rivenditore di ravioli cinesi del quartiere: non si fanno distinzioni.

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Mychal Watts//Getty Images

Il coraggio di Ruth Reichl viene premiato per dieci anni, finché nel 1993 la costa est non reclama la sua nativa con una posizione di restaurant critic al New York Times. La sua capacità critica è “make or break”: nel fare di un ristorante il posto dove andare assolutamente o distruggerlo senza pietà alcuna per i motivi più vari (e sempre giustificati da più visite, mai una sola), è unica al mondo. “La riprova è che nemmeno il cibo grandioso evita che le persone si urlino addosso” commenterà anni dopo al New Yorker, parlando del profilo Twitter Ruth Reichl. Al NYT Ruth Reichl si impone come la voce della verità. Scrive, in anticipo su tutti, delle contraddizioni della haute cuisine. Di maschilismo e abuso di potere imperante nel mondo della cucina: "Le cucine dei grandi ristoranti sono un teatro sessista", dichiarò sempre al New Yorker. E, dal suo punto di vista impietoso, nella concezione della donna critica gastronomica: i menu per donna scritti senza prezzi, i ristoranti di alto rango che cercano sempre di lasciare all’uomo il mestolo delle decisioni, il gender pay gap con trent'anni di anticipo. Il tutto condito -è il caso si dirlo- con la vinaigrette ironica dei suoi travestimenti, le trovate per non farsi riconoscere, i trucchi per passare inosservata, che diventano anche un libro.

I libri di Ruth Reichl escono a ciclo continuo, dai memoir familiari ai racconti sul cibo. Sono i libri il suo ultimo approdo: è una celebrità dall’immagine silente e dalla penna esplosiva. Resta 6 anni al NYT, lo lascia all’alba del nuovo millennio, in piena esaltazione newyorkese da Sex And The City, per avviare il progetto di quella che è a tutt’oggi la rivista di food più amata e osannata al mondo nonostante la chiusura prematura: Gourmet. Di cui Ruth Reichl è stata la mente e il braccio esecutivo per dieci anni. La sua ultima rivoluzione, in termini temporali, del mondo dei food magazines. La rivista che ha dato tutto per tutto ai foodie, agli albori del mondo social e dell’invasione dei foodblogger Instagram Ruth Reichl non si è mai pentita della sua direzione, tranne per una cosa che ha confessato in un’intervista all’Harvard Business Review: avere amici ai piani alti dell’azienda. Forse le cose sarebbero andate diversamente.

Ma Ruth Reichl dopo Gourmet ha scelto una strada nuova. L'ennesima. La donna che è sempre riuscita a reinventarsi, la scrittrice che ha vissuto di transizioni, passaggi, volteggi nel dubbio di farcela o meno, ha fatto il giro completo delle cronache per passare a scrivere di fiction. I romanzi di Ruth Reichl sono il coronamento di una carriera lunghissima, con tutta la cura che è riuscita a seminare in quarant’anni di scritture. Ma ogni tanto la penna più divertente, creativa e realista del food writing non disdegna qualche incursione online, o qualche progetto extra: podcast, incursioni radiofoniche, interviste, partnership che portino avanti la credibilità del suo pensiero. Quello che per lei era importante lo ha fatto: ha contribuito a cambiare la visione e l’approccio al cibo negli Stati Uniti. Cibo sano, cibo biologico, cibo come nutrimento per il corpo ma sempre cultura, politica, sociologia. Ruth Reichl, la pioniera.