A Roma, nonostante la varietà dei tipi umani e il tradizionale isolamento culturale dei quartieri, esistono solo due tipi di bar. Questi si distinguono non in base a coordinate spazio-temporali — tipo la vicinanza a punti strategici della città, come Zara o un parcheggio abusivo affidabile — o a caratteristiche di prodotto — ad esempio: il numero massimo di ingredienti (tolti già burro, uova, latte) di cui un cornetto può fare a meno pur restando un cornetto. La differenza sta nel rapporto di forza che intercorre tra il bar e chi sta dietro al bancone.

La prima tipologia è quella, oggi dominante, in cui è il bar a definire il barista, e questi è talmente anonimo o tipizzato da scomparire o da confondersi con l’arredamento. Ciò avviene sia quando le intenzioni sono teoricamente buone, ad esempio nei bar-sfilata dei Parioli e nei bar-libreria del Pigneto, e comunque in tutti i bar che si frequentano, col pretesto del caffè, come uno specchio deformante, per accertarsi di sembrare quello che non si è; sia quando sono oggettivamente cattive, come i bar-slot machine e tutti i bar in cui, più semplicemente, il caffè fa schifo e il barista potrebbe essere anche una reincarnazione, secondo i gusti, di David Foster Wallace o di Bombolo, ma comunque questo non cambierebbe di una virgola il sapore dell’esperienza e il nostro giudizio finale su di lui.

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La seconda tipologia è quella, figlia di una lunga tradizione, in cui è il carattere del barista a determinare quello del bar. Ormai, questa tipologia sopravvive in pochi bar vecchio stile, con un caffè spesso ottimo, che tendono al maltrattamento di un cliente più o meno apertamente masochista, che apprezzi quasi come una feature il fatto di essere servito, da avventore occasionale, con il rancore che si prova per un nemico personale; oppure, da habitué, come un cugino scemo.

Ma in una città in cui tutto funziona al contrario, in cui anche le norme del vivere più basilari sono quotidianamente sovvertite, è bello che ogni tanto qualcosa vada storto anche per le forze del male, e sopravvivano, da anni innumerevoli, anomalie come il signor Angelo Salis e il suo bar Farnese.

Il bar Farnese (quello di via dei Baullari, da non confondere mai con il caffè Farnese di piazza Farnese) non potrebbe esistere senza Angelo e Angelo non potrebbe esistere senza il bar Farnese. Non è questione di chissà quale orgoglio di categoria o metafora di capitano incapace di abbandonare la nave. È che Angelo si identifica totalmente col suo luogo di lavoro, come una naiade col suo fiume. Quel bar, d’altro canto, è la sua personificazione. La livrea bordeaux e l’acciaio della macchina, su cui è perennemente chino — senza smettere di sorridere ai clienti neanche quando è voltato — sembrano la premessa e l’epilogo di una metamorfosi di Ovidio rappresentata alla Bernini, in fieri, con i palmi delle mani che ancora conservano la morbidezza delle carni e le punte delle dita che già hanno assunto il colore del caffè.

Venire a visitare questo uomo-caffettiera è ogni mattina una colazione dell’anima

Da sempre i romani, per la fretta, forse anche per la caffeina, trovano nei bar l’ambiente privilegiato per testare i loro nuovi difetti e le loro prossime cattive abitudini, prima di immetterli sul mercato. È grazie ai bar che ha preso il volo, per dire, il parcheggio in tripla fila con prenotazione. Per questo, sembrerà strano che al bar Farnese i romani possano venire a specchiarsi nei loro antichi pregi perduti.

Angelo è così gentile che può fermarsi in loop a ringraziarti di averlo ringraziato, senza esagerare, fino a match da una dozzina di scambi, che lui sa bene di poter vincere al primo occhiolino ma, appunto, per cortesia, vi lascia in partita, finché non sarete voi a cedere, avendo assorbito abbastanza amabilità per tutta la giornata che vi aspetta. È oggettivamente la persona più gentile di Roma. Ogni tanto, se ha un black out, fra un loop e l’altro, è solo perché due tedeschi gli hanno chiesto se ha il WiFi.

Venire a visitare questo uomo-caffettiera è ogni mattina una colazione dell’anima, eppure lui è un portatore sano, del tutto inconsapevole, delle sue proprietà benefiche, più o meno come un amanuense che trascriva le parole di un manoscritto esotico senza masticarne la lingua, ma non senza prestare la stessa attenzione a ogni lettera.

Tanto più il cliente è impaziente o sgarbato, tanto più questa creatura mangia-maleducazione è premurosa e cordiale, in modo così contagioso che, dopo due o tre sedute, non puoi non ingentilirti, almeno finché sei sotto il suo tetto, prima di uscire e tornare a dare al prossimo del filo da torcere, come si conviene nel 2018.

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Nel suo viso deformato da decenni di sorrisi c’è tutta la disposizione secolare e millenaria del popolo romano all’incontro con altre abitudini, altre temperature dell’acqua in uscita, altre lacune etiche, ogni volta senza battere ciglio e mantenendo un’opacità totale rispetto al trapelare di qualsivoglia emozione privata, menzione autobiografica, preferenza personale. L’obiettivo è non violare mai la convenzione non scritta — ma per lui sacra come la licenza di somministrazione alimenti e bevande — che gli impone di fingere di essere solo un barista, e non lo spirito guida che protegge il rione, il centro storico, forse tutta Roma.

Al riparo dall’infinita finzione, dall’immenso caos del mondo esterno, solo al di qua del registratore di cassa Angelo trova, nella sua realtà, l’unica parte di mondo che riesce a quantificare, a ritmare: grazie mille, grazie a lei, grazie mille, signore.

90 centesimi per caffè, 1,80 euro per cappuccino e cornetto, che tu sia seduto o in piedi

Angelo non fa distinzioni tra chi consuma al bancone e chi siede ai due tavolini interni o nel dehors, che dà sullo struscio dei turisti, dei diplomatici e dei prelati che frequentano la zona di piazza Farnese. Dal primo giorno sei un vip e i vip sono te, così come i turisti si sentono un po’ romani e i romani si sentono turisti, nell’unico posto in cui possano permettersi di largheggiare con un bicchiere di prosecco, all’ora di punta dell’aperitivo, seduti a un tavolo a Campo de’ Fiori. È irrealmente economico: 90 centesimi per caffè, 1,80 euro per cappuccino e cornetto, che tu sia seduto o in piedi; che tu sia turista alto spendente singaporiano o pugliese fuorisede; che tu sia benedetto, signor Angelino.

L’unico avventore che sembra poter contare su una sorta di trattamento di riguardo è perché il riguardo se lo concede da solo. È uno degli ultimi rappresentanti di una tradizione antica come la facciata di Palazzo Farnese: lo scrittore di pasquinate. Questo epigrammatico contemporaneo ha sempre il suo tavolino, sempre all’interno e in qualunque giorno, non perché gli venga tenuto libero ma perché, quando arriva, e arriva sempre prima lui, se ne appropria.

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Il bar Farnese, in questo, è il suo Starbucks e la sua redazione; il suo studio grafico e la sua stamperia. Ci passa le ore a scrivere e riscrivere versi di poche righe che vengono fuori pronti per la pubblicazione, copy e impaginato, dai fogli di bloc-notes. Imponente com’è, sembra fare di tutto per essere notato. Esprime soddisfazione per una rima su Salvini con suoni gutturali. Niente: Angelo è intento a pulire una tazzina. Ridacchia per un passante che non è sfuggito al suo binocolo morale. Angelo continua a pulire la tazzina, dedicando esattamente la stessa cura e la stessa indifferenza a chiunque. Nel suo bar non ci sono privilegi per nessuno, perché ne godono già tutti.

Angelo sembra mostrare solo una debolezza, una specie di parzialità. Da qualche mese il suo garzone prediletto, Simone, trascorsi vent’anni di apprendistato, è diventato grande e ha deciso di aprire un locale suo, a Lariano. Non vi diciamo i cazziatoni che deve scontare, per contrappasso, il nuovo ragazzo di bottega che, per inciso, sarà come minimo coetaneo di Angelo.

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Solo Simone gode di un particolarissimo privilegio. In un bar in cui non ci sono quasi decorazioni, figuriamoci foto di personaggi famosi — come fanno gli altri bar del centro, anche se sono passati ugualmente tutti da qui — le uniche immagini che compaiono alle pareti sono di Angelo e Simone, il suo unico vip, tutti e due in livrea, uno piccolo e occhialuto, l’altro grande e gentile, quasi come l’altro. Tutte le fotografie sono nella stessa posa, con i due uno accanto all’altro, davanti alla macchina del caffè su cui adesso sono sistemate. E il bello è che le fotografie erano lì da prima che Simone andasse via.

Sono una piccola utopia limpida e pura come l’acqua del rubinetto, il Signor Angelo e il suo bar, giusto alla fine dell’universo.