Ma quanto è bello andare a tartufi per i colli bolognesi. E quanto è bello scoprire che proprio da Bologna è partito il movimento che sta cercando di far diventare il tartufo patrimonio immateriale dell’umanità in quanto prodotto culturale. Con tanto di candidatura ufficiale all’UNESCO annunciata i primi di ottobre a FICO Eataly World dopo un lungo processo di presentazione iniziato nel 2012, nella speranza che una delle eccellenze del cibo abbia finalmente un riconoscimento mondiale. L’Associazione Nazionale Città del Tartufo ci spera fortissimo. Uomini e donne che spiegano tecniche di raccolta, evocano il rispetto del territorio che nessun tartufaio violerebbe nel nome del codice del bosco, raccontano antiche e struggenti leggende a tema tartufo che non sono solo un infiorettamento di una storia, ma vere spinte alla conservazione del tartufo, uno dei cibi più preziosi che le alchimie della terra possano offrire. Perché il tartufo è l’Italia: per quantità di raccolta, estensione dei territori dove si può trovare, esportazione in tutto il mondo. I migliori tartufi si trovano entro i confini geografici dello Stivale. Per questo la richiesta di tutela del tartufo è più urgente che mai.

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Il tartufo non si coltiva, sia chiaro. Lo spiega con un sorriso aperto Luigi Dattilo, presidente e anima allegra dell’azienda Appennino Food Group sulle colline brillanti di accennato foliage della Valsamoggia, ex comune di Savigno dove 35 anni fa fu creata la prima sagra del tartufo. Il fondatore dell’appuntamento gastronomico diventato un must è l’ex vigile Adriano, tartufaio doc di pochissime parole e molta concretezza silenziosa, che sbuca in azienda con le sue guance rosse di umidità del bosco e gli occhi intimiditi (è andato a tartufi, naturalmente, porta con sé la ventata fresca della mattina). Luigi Dattilo, nel suo camice bianco, inframmezza di battute e ricordi personali i suoi racconti: il suo primo cane da tartufo comprato con i risparmi del lavoro di cameriere a 17 anni, la voglia di impiantare un’azienda a filiera ultracorta lavorando strettamente a contatto col territorio prima di espandersi in tutto il mondo, la diversificazione della produzione mantenendo il core business del preziosissimo oro bianco (e nero). E soprattutto Dattilo sbufala, spiega, dipana la storia del tartufo attraverso quei miti, leggende, credenze popolari sul terrae tuber, come lo chiamavano i latini.

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Si parte dalle basi, pardon, dal sottoterra: a dispetto del nome il tartufo non è un tubero, ma un fungo ipogeo che cresce quando una pianta è in difficoltà. Praticamente fa da integratore ad un albero che soffre: il tartufo raccoglie i minerali dal terreno e li mutua alla pianta, aiutandola a restare in salute. Una sorta di Supradyn per gli alberi. Ma non cresce ovunque: come tutti i funghi, si sviluppa a partire dalle spore e a seconda che ci siano piante madri o piante comari. Molti produttori o aspiranti tali scelgono un rimboschimento dei terreni votati alla produzione con piante miconizzate, che contengono già le spore dei tartufi, in modo da facilitarne la formazione. Esistono 5 piante madri del tartufo: quercia (leccio e roverella come varietà), tiglio, pioppo bianco, càrpino e nocciolo. Proprio quest’ultima pianta è stata quella che ha fatto la fortuna della città piemontese di Alba. Basti pensare alla golosità più diffusa e conosciuta del territorio nazionale: la Nutella. La Ferrero, grazie all’impianto dei noccioleti nella provincia piemontese per la produzione dei suoi cioccolati(ni), ha favorito i minerali necessari allo sviluppo del tartufo bianco di Alba. Fa fede anche la chimica del territorio su cui si impiantano gli alberi: una composizione più basica sarà la culla del tartufo bianco, una più acida favorirà invece il tartufo nero. L’Italia è un paese ricchissimo di tartufi da Nord a Sud, tanto per scardinare convinzioni e credenze. E di tartufi, sia detto, ne esistono complessivamente 100 varietà conosciute, tutte dai profumi, consistenze e sapori diversi. Dal tuber magnatum Pico, nome scientifico del tartufo bianco, al tuber melanosporum (il nero pregiato) fino all'uncinato, lo scorzone estivo, il bianchetto, il rossetto, il mesenterico (tartufo acido fenico) e via nominando, ogni albero e ogni composizione territoriale può portare ad una raccolta di tartufi sempre differente. E a ricette con tartufo di stragrande creatività.

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I tartufi sono stagionali per varietà, ma si possono trovare tutto l’anno. Ci sono comunque calendari da rispettare, regolamentazioni nazionali e conoscenze da non lasciare da parte. Non ci si improvvisa tartufai, mai. Né, tantomeno e giustamente, la legge lo consente. Come si diventa cercatori di tartufi? Bisogna avere una licenza che viene rilasciata dalle Regioni (ognuna ha le sue normative in merito). Si deve imparare sempre, dal bosco e da chi si prende la briga di fare formazione. Con pochissime parole, tantissima pazienza filosofica e la capacità di saper leggere il bosco e i suoi silenzi. Interrotti solo dallo sbuffo a vaporetto del cane da tartufo quando trova la gemma. La lezione pratica ce la regala un fenomeno di cagnolina di razza lagotto romagnolo, una potenza di riccioli di cioccolato bianco e fondente. Si chiama Macchia ed è una fuoriclasse assoluta.

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Lo racconta dentro la sua mimetica il padrone Maurizio, che è il genero del sunnominato Adriano l'ex vigile. Il tartufo in Valsamoggia è spesso una questione di famiglie, si ereditano conoscenze, luoghi, trucchi, animali. Macchia pompa a quattro zampe motrici per la trifola, il bottino sarà magrissimo (un micro tartufo bianco che è valso la pena per lo spettacolo della ricerca) ma Maurizio spiega chiaramente che questa porzione di bosco in cui camminiamo è pubblica, aperta a tutti, ampiamente battuta. Quindi, logicamente svuotata. Ma è abbastanza consueto uscire a tartufi e tornare a mani vuote: fare il tartufaio un lavoro snervante, difficile, con orari improbabili, per questo deve essere mosso da una passione che non ha eguali. I tartufai hanno le loro zone, le loro regole non scritte, i loro segreti: non si esce a tartufi sotto la neve (le tracce rivelerebbero troppo), si parcheggia lontano da dove effettivamente si va alla ricerca (specialmente quando ci si muove in zone nuove), non si divulgano i punti migliori di raccolta (la mimetica serve anche a quello). E ci si rispetta, sempre. Tra umani e tra animali. L’addestramento del cane da tartufo è un investimento per la vita, può costare anche molto. Ma nel caso di talenti purissimi come la tenerissima Macchia, che tra un’annusata e l’altra non disdegna coccole dai presenti, è fondamentale che sia fatto al meglio: ogni cane è un potenziale cacciatore di tartufi, basta saperlo indirizzare sin dai tre mesi. Non ci sono distinzioni di razze o bastardini, l’importante è saper intuire il suo fiuto. E andare a tartufi con i maiali? Antichissima tradizione che risale ai tempi dei Romani. In Italia ora si porta meno per una questione di ingombro animale, ma è vero che anche i cari grufolanti hanno un olfatto di perla, decisamente sviluppato.

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A risalire dal bosco verso le aziende, si passa alle città che del tartufo ne hanno fatto un vanto e una calamita turistica potentissima. Alla presentazione della candidatura del tartufo patrimonio UNESCO, il patron di Eataly Oscar Farinetti (che ha svelato di aver provato a fare il tartufaio a 17 anni) non usa mezze parole: “Il cibo è cultura, è arte. I prodotti italiani si conoscono in tutto il mondo, ma dobbiamo puntare sul tartufo che ci distingue. Abbiamo il vino, l’olio, il formaggio ma non siamo i soli. Quello che abbiamo solo noi è il tartufo. O meglio, nel mondo c’è ma non lo cercano. Bisogna far conoscere il tartufo difendendone le caratteristiche, per accompagnare la presenza turistica diffusa sul territorio”. E a questa centralità del tartufo come prodotto che racconta le radici e l’identità di un luogo, “legare al tartufo il ciclo del turismo” dice Farinetti, deve fare da traino l’intervento istituzionale. Riuscire a regolamentare la figura del cavatore di tartufi (lo fanno anche molte donne), segnare norme fiscali di tracciabilità e filiera territoriale, avere una legge nazionale sul tartufo che unisca la parte pratica al prestigio culturale che (si spera vivamente) l’UNESCO darà ufficialmente al tartufo saranno le prossime grandi sfide delle istituzioni.

Nel frattempo, a livello locale le amministrazioni hanno già iniziato a muoversi. Romina Rossi, vicesindaco e assessore all’ambiente, cultura, turismo e tartufo di Sant’Angelo in Vado (PU) sottolinea che il suo paese è probabilmente il primo e unico al mondo ad avere un assessorato espressamente dedicato al tartufo. Ed è una delle poche, caparbie donne del tartufo che si sono fatte strada in una tradizione trifola culturalmente maschile: “Vado a tartufi sin da piccola, avevo il mio vanghino. Ho cominciato con mio nonno, ho imparato con lui a rispettare la natura: diceva che se ami la terra, la terra ti ama. Se dovessero sparire tutti i soldi, quando la ami la terra non ti lascia da solo” sostiene con voce ferma. Il tartufo è magia pura, un mistero che l’uomo ha provato a domare con la coltivazione senza riuscirci più di tanto. Si può solo favorirne la crescita piantando determinati alberi, ma il resto è nelle variabili imprevedibili della natura: “io mi permetto di dire che è una magia: nel bosco il tempo è senza tempo, uno spazio senza confini. Ti viene riconsegnato qualcosa di diverso: rumori, colori, le piccole cose come una lumaca che scivola sulle foglie. Poi si va a tartufo con il cane, un simbiotico dell’uomo: dico sempre che si va al ritmo dei due cuori. Chi va a tartufi fa chilometri in posti impervi, rami, salite, discese, ma è una passione: Sant’Angelo ha il vanto di avere 1200 tesserini su 4200 abitanti, ma i tartufai sono una realtà particolare, ti diranno sempre che non se ne trovano” sorride Romina.

L'assessore ci regala la leggenda sul tartufo più bella, legata ad un’antica domus romana che si trova a Sant’Angelo in Vado. Nel I secolo dopo Cristo, in pieno Impero Romano, in città c’erano due giovani innamorati appartenenti a classi sociali differenti:, Mennenio, figlio di un ricco patrizio romano dai colori mediterranei, occhi e capelli scuri, e Nicia, figlia dei servi celtici e per questo bionda con occhi azzurri. Il loro amore è un oltraggio alla società dell’epoca, quando il padre di lui lo scopre si infuria, ma Mennenio ha il coraggio di ribellarsi e gli dice: “Padre, mi dispiace per te se ancora oggi non hai capito che non sono le ricchezze del tuo commercio di legnami a contare, ma è l’amore. Vedrai che gli dèi benediranno la nostra unione”. Chiamati in causa, a quanto pare gli dèi presero seriamente le parole del giovane e donarono ai due innamorati una domus di mille metri quadrati, costruita in una notte sola. Attualmente circa 500 metri quadrati sono visitabili, e i mosaici raffigurano figure mitologiche come Nettuno, Bacco e Medusa. Nella stanza più grande della casa dove si trova il triclinio, sul muro è raffigurato un giovane che potrebbe essere lo stesso Mennenio: e nella mano protesa verso i visitatori, quasi un’offerta curiosa, tiene un tartufo. “Gli dèi hanno voluto lasciare un segno tangibile attraverso la ricchezza della natura: a Sant’Angelo si trovano infatti tartufi bianchi e tartufi neri” conclude Romina Rossi. Tartufi preziosi, opposti nei colori come i due giovanissimi amanti della leggenda ma simbolo della potenza assoluta dell’amore per la natura e per le sue misteriose alchimie, che nel profondo umido e protettivo della terra riescono, a distanza di secoli, a regalare una magia sensuale e profumata che non finirà mai di affascinare.