Non c’è quartiere di Roma più chiuso in se stesso, nelle proprie abitudini e nei propri rituali, dei Parioli. Non c’è un altro luogo d’Italia in cui possa sopravvivere, ad esempio, un negozio come quello di Danilo Gabrielli. È specializzato in divise per domestici: sui suoi tappeti persiani ci si muove come al casting dell’eterno remake di un film dei Vanzina, in attesa che le parti siano assegnate dal titolare — il quale, opportunamente, divide il mondo tra clienti reali e personaggi interpretabili da Claudio Amendola —, sempre col timore che i due manichini in livrea all’ingresso, severi come sfingi, ci rimproverino di non aver abbinato bene scarpe e cintura. I Parioli logorano chi non vi ha avuto almeno due nonni oriundi.

Sono figure fuori dal coro come quella di Pino, il macellaio di via Antonelli, che fluidificano il quartiere e, in ultima analisi, lo aprono — o socchiudono — al resto della città, come avamposti di una pariolinitas che, se non potrà mai essere esportata, quantomeno potrà essere messa in scena con qualche variazione sul tema.

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La sua attività è nata dalle ceneri della collaborazione con suo suocero, la cui macelleria — seguita da altri eredi — ancora oggi campeggia esattamente di fronte alla sua, guardandola in cagnesco, da un lato all’altro della via Bernini e Borromini dell’abbacchio.

Una città in cui anche le facciate delle chiese indossano i tacchi per sembrare più alte

Se dietro ogni macellaio all’antica c’è una pièce di teatro della crudeltà, Pino è in grado di far sembrare la tavolata de La Bella e la bestia la prova generale di una recita scolastica. I macellai storici romani conoscono un’estetica semplice: un taglio netto tra ciò che è reale e ciò che non lo è, un tunnel di marmo scavato verso la fredda e nuda verità, in una città in cui anche le facciate delle chiese indossano i tacchi per sembrare più alte e le cupole si nascondono dietro buchi della serratura.

Pino è il contrario esatto. Lui abbraccia la spettacolarizzazione di vendita e customer care fino al punto in cui diventa gustosa come e più di un controfiletto sceltissimo.

Pino ha disposto al di qua del palcoscenico di cristallo del suo bancone uno dei suoi simboli più riusciti della Roma di oggi: una macelleria acchittata come una beauty farm e gestita come un café chantant, di cui ogni cliente può diventare vedette e ogni garzone sembra aspirare ad almeno un Tony alla carriera. Con 50 anni di esperienza alle spalle, poteva accontentarsi di essere solo un macellaio ben avviato, e invece ha voluto fare anche l’impresario teatrale, riconciliando una volta per tutte i due significati della parola mattatore.

Mentre nascevano nuovi supermercati, lui ha creato nuovi bisogni

Più vicino ideologicamente a Bert di Mary Poppins che a Manzotin di Febbre da cavallo, Pino ha saputo interpretare il momento e il quartiere meglio di molti altri negozi storici della zona, che hanno finito per chiudere o per farsi stravolgere il copione da sceneggiatori che non erano del mestiere. Mentre nascevano nuovi supermercati, lui ha creato nuovi bisogni, che senza di lui non sarebbero mai esistiti e che oggi nessun altro potrebbe soddisfare. Pino ha capito cosa vogliono le parioline: più ancora delle costate di fassona simbiotica, un’esperienza che le faccia sentire più sicure, più informate, più scafate, possibilmente più belle, sicuramente più parioline.

Pino fa principalmente due tipi di teatro. Il primo è quello che si svolge all’interno della bottega, e di cui solo lui può essere protagonista, e con cui presenta al pubblico, insieme coi suoi prodotti, se stesso. Proprio come il prof. dott. Guido Tersilli nel sequel del Medico della mutua, sotto il camice bianco Pino porta la cravatta. Tutti gli anni di gavetta non avrebbero avuto senso se ancora oggi dovesse sporcarsi le mani e non cominciasse invece ogni giornata di lavoro, impettito, sordiano come solo un romano convinto ma acquisito può essere (Pino è salentino di Vignacastrisi), passando in rassegna il suo coro di garzoni come fa un primario coi suoi aiuti.

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Il colore delle iridi lo fa conoscere da piazza Euclide in giù con un nickname: Blue ice, avendo egli perfezionato lo sguardo da Zoolander ben prima che Ben Stiller avesse mai aperto gli occhi.

“Lo stesso parmigiano biologico che ti vendo sfuso” — ti sussurra nell’orecchio, prendendoti per mano — “lo uso anche per fare la parmigiana già pronta”. Ogni taglio di carne, salume e preparato recita una parte, che non sempre è quella che la natura sembrava aver prospettato loro. Bresaole così saporite da sembrare speck, porchette tanto digeribili da passare per arrosto di tacchino. Fa eccezione solo il vitel tonné che, per come è fatto, può interpretare solo se stesso.

Quando Pino ti confida che non tratta molto i formaggi, come se fosse qualcosa al di sotto di sé, lo fa con delicatezza, come per non offendere qualche tuo parente nel ramo lattiero-caseario. Quando si avvicina l’ora della chiusura, parte l’aperitivo solo per i clienti più intimi, cioè tutti.

È grazie a Pino che da quella bottega esci sempre col sorriso, anche se hai preso del manzo di Kobe da 280 euro al chilo (forse, potertelo permettere aiuta a sorridere).

Il secondo tipo di teatro che Pino produce è quello che si svolge fuori dal negozio, e coinvolge le sue clienti e i loro commensali. Le più abituali sono curate una a una con una tale attenzione che ciascuna è convinta di essere l’unica e ha paura di mandarlo, per questo, fallito. (Da cosa si capisce che Pino conosce l’antidoto ai centri commerciali? Ogni anno che passa, invece di aumentare, si riduce l’età del suo target di riferimento: nel 2018 siamo sui 35-45, tutte con in mano il loro sacchettino personalizzato con sedano, carota, e cipolla per il soffritto).

Uno dei segreti di Pulcinella peggio custoditi dei Parioli è il mitico polpettone Tre P — tutte e tre di Pino — con prugne, pinoli e pistacchi, il suo vero e proprio marchio di fabbrica. Sono decenni che gli ospiti di una qualsivoglia cena placée in zona, tutti clienti fissi di Pino, devono dare fondo a tutto il loro talento recitativo per stupirsi dell’accaduto: “Giadina ha fatto un polpettone tutto da sola!” — “Quanto disturbo solo per noi!”. La lista dei cognomi a cui sono assegnate, del resto, alcune delle preparazioni più complesse della giornata, scritta col pennarello verde indelebile, è affissa alla vetrina, guardata con l’ammirazione con cui si guarda la lista dei soci fondatori di un circolo nautico.

I ragazzi al bancone, proprio come altrettanti tagli di filetto, sembrano intercambiabili tra loro solo all’occhio meno allenato della cliente al primo acquisto: in realtà le habituée hanno imparato a distinguere e farsi servire solo dal loro preferito, anche a costo, seguendo l’esempio di Kate Middleton, di dover aspettare. D’altronde, cos’è il tempo di un pomeriggio in una parte di mondo in cui uno dei valori maggiormente condivisi è la frollatura e l’attesa non fa che aumentare il piacere?

Tartare che mi diventa aggressiva se è abbinata alle alici del Cantabrico

I garzoni sono divisi in due tipologie: quelli che stanno al bancone e quelli che stanno dietro, attori e maestranze. Non è detto che si possa salire dal più basso al più alto. Di certo, se si sbaglia, si può scendere.

La più grande sfortuna di Pino sarebbe stata avere un figlio vegano. Invece ha avuto un figlio bio, Luca, che ovviamente è stata la sua più grande fortuna. Luca ha creato il micro Eataly che occupa tutta la parete di fronte al bancone della carne e che prosegue, con opportune varianti, le ricerche del padre. Tonno del Golfo di Taranto così tenero che si taglia col tonno Rio Mare; latte nobile di Frisona che può mangiare solo tre tipi di erba; uova rilassate di galline allevate coi semi di canapa; tartare che mi diventa aggressiva se è abbinata alle alici del Cantabrico.

Se Pino, oltre che essere un grande macellaio, è anche un fine teatroterapeuta, Luca non è da meno e alla sua prima qualifica di Farinetti della porta accanto può aggiungere quelle di visual marketer e di dietologo honoris causa.

Sua è la grafica delle buste cult di Pino. Sono così desiderate che si tende a usarle anche per incartare le proprie preparazioni personali, quando si è invitate a una cena in piedi, e si ha bisogno di una botta di autorevolezza. La linea dietologica di Luca, invece, è che la vera alternativa alla dieta è mangiare bene e soprattutto da lui.

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Da Pino il macellaio, padre e figlio, bancone e retrobottega, tutti i contrasti e le analogie possibili ci ricordano a ogni spezzatino, che la bellezza del cibo, come della vita, sta nell’incontro più o meno spontaneo, più o meno cercato, tra magro e grasso, muscoli e tendini, lacrime e sangue, realtà e finzione.