Se volete capire come vanno le cose in Italia in un dato anno, aspettate i giorni di Natale e visitate prima una grande pasticceria tradizionale e poi gli scaffali dedicati ai dolci di un ipermercato. Grazie all’osservazione dei panettoni artigianali - con la loro tormentata preparazione, la loro prodigiosa varietà - infatti, non soltanto è possibile afferrare meglio gli ultimi ritrovati in fatto di pregi e difetti degli italiani, ma anche farci un’idea di quello che potremmo fare per migliorare le cose, a partire dal credere più in noi stessi.

Quest’anno il bollettino è il seguente: siamo ormai un popolo così elettrico e polarizzato che, anche in fatto di dessert natalizi, non ci riconosciamo che nella tradizione più immobilista o nell’aberrazione, la devianza e il pervertimento; nell’infondata presunzione di legittimità o nell’ostentazione smaccata dell’impunità; nel lusso senza ritegno o nel low cost indecoroso; nel gigantismo o nei bonsai; nel panettone di Iginio Massari o in quello della Juve. Eppure, quanto potremmo imparare da questo pane aumentato, a metà tra la versione Super Saiyan di una pagnotta e un muffin che ha incontrato Dio. Il panettone è il più macchinoso tra i dolci complicati, ma non è un esercizio di pura astrazione o geometrizzazione, rispetto agli ingredienti di partenza, come uno strudel o una cassata. È il miracolo del cibo di tutti i giorni lievitato all’ennesima potenza che, espandendosi oltre i confini di carta da forno che gli sono stati dati, trionfando sulla gravità e sui tempi di cottura, finisce quasi per esplodere come un piccolo grande fungo, atomico ma pacifista. Prendete appunti, stomaci in fuga e sovranisti stanziali.

Da secoli, questa metafora del carboidrato vestito a festa, coi canditi al posto dei lustrini e l’uvetta invece degli strass, segna sulla tavola il confine preciso tra dove finisce la pura nutrizione e inizia il vero divertimento. Ma questa apparente spensieratezza ha un prezzo. Un panettone può sembrare disinvolto, ma è il dolce premeditato per eccellenza: il manifesto poetico dei prodotti da forno, la celebrazione del superamento delle difficoltà organizzative dietro ogni cosa veramente ben cotta. Per questo, fa ancora tanta differenza il mestiere di chi impasta e inforna: lo scarto tra un panettone artigianale fatto bene e un panettone industriale prodotto male è lo stesso che separa il salto acrobatico di un tuffatore olimpionico e tuo cugino che si butta a bomba da un pedalò. Prendete note vocali, noleggiatori di fumo e usurpatori di arrosti.

Il panettone è davvero il principe del forno, nel bene e nel male. È costoso farlo bene ma è ancora più costoso sbagliarlo, e gli errori sono in agguato a ogni angolo: quantità, qualità, sapore e consistenza di un ingrediente, emulsione, fermentazione, lievitazione, tempo e temperatura di ingresso di ciascun ingrediente, tempo e temperatura di cottura del tutto. Cuocere un panettone è contemporaneamente metodo scientifico e rituale mistico, perché puoi anche fare le dosi al millilitro, ma quando ne affidi uno al forno, lo fai comunque pregando: ogni volta che chiudi lo sportello il budget è più alto e il Natale più vicino. Un panettone è il contrario della cucina di casa, quella dove non regna il calcolo, ma il buonsenso; dove, se qualcosa va storto, puoi sempre aggiungere olio o besciamella, secondo che tu sia una madre di famiglia navigata o una nonna snaturata. Se dimentichi qualcosa, il panettone è andato e non c’è niente da fare per salvarlo. Forse non è poi così strano che un tipo così precisino sia nato in Italia, perché prende il meglio delle due principali virtù del nostro popolo: visione e tecnica. Pare sia nato da un errore di timing, nel ‘400, ed è da allora che cerchiamo di rifare, perfettamente e sistematicamente, lo stesso sbaglio. Disegnatevi una mind map, improvvisatori con cucina e ladri di polli fritti freddi.

#1 Capitolo anomalie. In principio fu il panettone alla piemontese. Due devianze: torinese e glassato alle nocciole. Inizio ‘900, pasticceria Galup. L’eterna lotta, degna di King Kong contro Godzilla, tra tradizione e innovazione, comincia anche per i panettoni. Quello intitolato Omaggio a Milano, firmato da Daniel Canzian, ad esempio, prevede una farcitura a base di riso e zafferano, praticamente un risotto alla milanese con un panettone intorno: coraggioso tentativo di imbrigliare due tradizioni in un solo prodotto. A questo punto, perché non il panettone alla coda alla vaccinara? Fate attenzione a quello che desiderate, perché quello alla carbonara lo ha già fatto Dario Nuti all’hotel Cavalieri di Roma. Praticamente un panettone spaghetti western, in cui le due ricette, al minimo cenno di nervosismo, potrebbero intimarsi a vicenda: questo lievitato è troppo piccolo per tutte e due. Di certo, questi non sono panettoni per tutti, ma il rischio è che la gente si getti nelle braccia di quelli da un euro e novantanove del supermercato, pur di rassicurarsi.

#2 Va bene la larghezza di vedute, va bene aprirsi alla contaminazione, ancora meglio non demonizzare chi la pensa diversamente da noi, eppure, quel che è certo è che, quando si tratta di panettoni, più somigli a un panettone e meglio è.

#3 Certi panettoni non esistenti in natura, che non possono che essere troll della propaganda russa: senza canditi, senza uvetta, senza zucchero, senza uova, senza burro, senza sapore. Creati per dividerci, tribalizzarci e per farci smettere, progressivamente, di credere nei valori della democrazia.

#4 Il Canettone della pasticceria per cani bresciana DoggyeBag, nella versione carne (con anatra all’arancia) e quella pesce (con salmone), perché anche Briciola vuole la sua fetta di Natale. P.S. In catalogo non manca il Candoro, al miele e al cocco.

#5 Il Panettone per due di Pavé, “ideale per coppie o per single con molta fame” (anche se, da che mondo è mondo, ci risulta che i single con molta fame siano capaci di ingurgitare ben più di un panettone intero), è la versione dolciaria di quei profili Facebook congiunti, concepiti coniugalmente come tombe etrusche o pacchetti per saune.

#6 I panettoni monoporzione, microscopici e gustosi come una brioscina da B&B, che annullano in un sol boccone anni e anni di propaganda sul fatto che le dimensioni non contino.

#7 Un panettone siciliano al triplo pistacchio di Bronte (nell’impasto, nella crema e nella glassa), come quello della pasticceria catanese di Giovanni Salici, è la prova che la tradizione più degna di essere seguita è quella che non dice il suo nome, e che si preoccupa solo di essere attuale e valida. Altro che sparare cassate a forma di panettone. Forse ha ragione lo chef coreano-americano Dave Chang (uno che ama giocare coi paradossi e con le mazzancolle vive) quando - nella sua serie Netflix, Ugly delicious - si burla un po’ dei pizzaioli dell’Associazione verace pizza napoletana, facendoli rappresentare dal loro decano che, al confronto con il conduttore, sembra un membro della guardia nobile di Papa Pio VI, comandata dal marchese del Grillo, nel film di Monicelli. Poco dopo, dall’altra parte del mondo, uno chef giapponese prepara una pizza con l’unica mozzarella - per lui - autentica: quella che fanno vicino Kyoto.

#8 La notizia buona è che la Puglia si sta imponendo come la regina dei panettoni salati. Quella cattiva è che si passa dalla meraviglia al forte scetticismo nel giro di pochi chilometri. Il Pancapocollo, figlio naturale del salumificio Santoro di Cisternino e della forneria Lenti di Grottaglie, a base di capocollo di Martina Franca, è così equilibrato, così nella parte, che ti fa domandare che senso abbia avuto mangiare panettoni dolci per tutta una vita. Il “panettone salentino”, invece, è una specie di puccia gigante con olive, pomodori canditi, pomodori secchi, cappero e timo fresco.

#9 Ci sono panettoni mutanti glassati con mandorle intere che sono un episodio crossover con la Pasqua. Dovrebbero scriverci in piccolo: può contenere tracce di altre festività. Quando poi non hanno né canditi né uvetta, sono smaccatamente colombe en travesti. Un tentativo di destagionalizzazione del panettone un po’ più concreto di quello che ebbe come mandante intellettuale Renato Pozzetto, col suo tormentone: “Il Natale, quando arriva, arriva”. In fin dei conti, conoscono lo stesso dramma di Emma Bovary: l’incapacità di accettarsi per quello che si è.

#10 Non sono molti i panettoni artigianali di alto bordo che ancora incutano timore reverenziale nel potenziale acquirente, al punto da metterlo in fuga in caso di dress code non appropriato, all’ingresso in pasticceria. Tra questi ci sono senz’altro quello di Marchesi e quello di Cova, entrambi milanesissimi.

#11 Il panettone ai 3 cioccolati, per non scontentare nessuna minoranza.

#12 Il panettone salviniano fase II, ecumenico e con aperture al Sud, milanese nell’impasto con con farcitura di pasta di mandorle pugliesi e canditi di limone siciliano.

#13 Il Tartufone Motta. Inizialmente era guardato con sospetto, perché non si riusciva a collocarlo né tra i pandoridi né tra i panettoniformi, ma ormai è a sua volta così antico che viene non solo tollerato, ma anche mangiato.

#14 Per finire, il panettone che ha la potenzialità di essere, al tempo stesso, il migliore e il peggiore di tutti - migliore anche di quello che vince Re Panettone; peggiore anche di quello alle carote - resta sempre quello che possiamo prepararci da soli, a nostro rischio e pericolo, in casa. Una guida intellettualmente onesta, per iniziare, l’ha scritta Luca Sessa.