Giornale di bordo, data astrale 2019. L’impossibile è successo. In via della Seggiola a Roma, un oggetto freddo di forma conica ha interrotto la nostra fuga dai sushi all-you-can-eat della zona. Abbiamo raccolto un segnale di vera crema al limone, il messaggio di speranza di una gelateria fondata quarantotto anni fa.

Gli esseri umani di questa era sembrano protesi, pancia in fuori, verso la continua ricerca del nuovo, del discorde; verso la sovversione dei classici, lo scombinamento delle priorità, il travisamento dell’attualità, e sempre più di rado si accontentano dei piaceri semplici e abituali, tra cui la bontà disadorna di un gelato al naturale.

Ispezionando il bar aperto nel 1971 al rione Regola da Alberto Pica — oggi gestito dalla moglie Maria e dalla figlia Evelina, e frequentato assiduamente dai sei nipoti — è possibile riscoprire il valore dei mantecati che tengono famiglia.

Il bar Pica è così autenticamente fermo a cinquant’anni fa, nell’arredo e nella concezione del tiramisù, che ci entrerete in punta di piedi, un po’ per la paura di incontrare vostro padre con i pantaloni a zampa e una coppetta di crema alle fragoline di bosco; un po’ per quella di toccare qualcosa e creare qualche paradosso nel continuum spaziotempo, ansiosi, come personaggi di un racconto di Robert Silverberg, che i vostri genitori non si conoscano o, ancora peggio, che la signora Maria non inventi più il gusto mielarancia.

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Sara Cervelli

Qui gli ingredienti sono freschi. Così freschi che a volte non troverete la crema per cui siete venuti apposta dall’altra parte di Roma e da un’altra epoca, ma quasi sempre godrete come se non ci fosse un presente. Ogni gusto è una ricetta, con i suoi segreti e la sua dignità gastronomica. Tutti dovrebbero essere consumati in purezza. Tutti, forse, tranne il riso, il principe della vetrinetta di Pica, che sta bene con tutto, buono come il migliore rice pudding, deliziosamente gelido, che potrete mai assaggiare.

La selezione del cliente è come il gusto al melone in agosto: naturale.

Con un certo orgoglio per nulla esplicitato, Pica non appartiene né alla schiera di chi mette in mostra il gelato impettito, gonfio d’aria, che pare un sorbetto palestrato; né di quelli che lo coprono con un coperchio tirato a lucido: usi che rivelano subito, rispettivamente, il gelataio senza pretese e quello che ne ha troppe. I gusti di Pica sono lì, come tutte le cose veramente buone di Roma, spiattellati eppure introvabili, se non sapete dove cercare.

Al cospetto di quelle vaschette, appena increspate dall’ultimo passaggio della paletta, dal sapore eccezionale, ma così poco fotogeniche, anche il foodie più proattivo si fa serio e compassato. Pica non è una di quelle gelaterie frivole, in cui passi il tempo a scandagliare le etichette, i colori, i tuoi compagni di sventura in fila. La selezione del cliente è come il gusto al melone in agosto: naturale. Se capiti da Pica e non sei un iniziato, può accadere benissimo che ti lasci il gelato sulla sinistra e chiedi un pacchetto di Marlboro alla sora Maria, come sempre issata sul piedistallo della cassa; la quale, gentilmente, ti dà il resto delle sigarette, senza farti mai pesare quello che, purtroppo, non sai di perderti.

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Sara Cervelli

Quando Alberto Pica era già il presidente dei pubblici esercizi romani, spesso, la sera, Maria si affacciava fuori dal bar e vedeva la luce dell’ufficio del marito ancora accesa, nella sede dell’Associazione. Telefonata: “Alberto ho finito il gelato, vieni!” — “Esco e te lo faccio”. Piano piano, lo cominciò a fare da sola. Negli anni, silenziosamente, Maria ha inventato mielarancio, riso, sette veli, manna (tratto dalla resina del frassino siciliano), caffè bianco, pastiera, cassata e molti altri, fino al prosciutto. Il gelato al riso lo ha concepito convinta, nella sua infinita modestia — con un retrogusto di malizia — che se sai cucinare, in fondo puoi fare anche il gelato.

Maria sapeva cucinare talmente bene che nel febbraio 1988 partì per Tokyo, per un’importante missione di diplomazia gelatiera: 15 giorni per insegnare a fare meglio coni e coppette alla divisione nipponica della Carpigiani. Alberto non l’avrebbe mandata sull’Oceano Pacifico da sola. Allora lei scrisse ai signori giapponesi dicendo che ci sarebbe andata con il marito, che avrebbe pagato il suo biglietto da sé.

Il gelato al riso lo ha concepito convinta con un retrogusto di malizia

La cosa più bella di Alberto e Maria Pica è che di loro non si riusciva a dire se prevalesse la grande donna dietro il grande uomo o il grande uomo dietro la grande donna. Lei era la creativa e la front woman, lui lo stratega, il tessitore di relazioni tra persone e sapori.

Esercente e negoziatore, Alberto Pica è stato — come un monarca britannico — sia il padre spirituale che il capo temporale dei gelatai romani e poi italiani. Anzi, per loro Alberto è stato quello che William Wallace è stato per il popolo scozzese, anche se invocare il suo nome sarebbe suonato un po’ strano, soprattutto se nel bel mezzo della piana di Stirling Bridge, prima di dichiarare la loro indipendenza dall’industria dolciaria. Li prese che erano ancora perlopiù semplici lattai e li trasformò in artigiani del freddo. Se oggi siamo ancora la patria mondiale del gelato è anche grazie a chi, a partire dagli anni ‘80, con passione, sacrificio e una sapiente rete di alleanze, fece emergere questo prodotto in barba alle mode importate dalla televisione e ai cornetti Algida. Nessuno può mettere la stracciatella in un angolo, pensava Alberto. E così fu. Il gelato come si deve prese il volo. “Gelato a Primavera” nacque nel 1986, con un’idea geniale: regalare a tutti i bambini, per una settimana, in tutta Italia, enormi quantitativi di gelato artigianale. Gli dedicarono anche una copertina di Topolino.

Negli anni Alberto ha creato un specie di ordine equestre dei gelatai italiani, con tanto di gradi, da cavaliere ad ambasciatore, ancora oggi soggetti a un loro particolare disciplinare e pronti a duellare, ogni anno, al Salone Internazionale della Gelateria e della Pasticceria di Rimini, dove si assegna un premio alla sua memoria, per il migliore zabaione.

Oggi, se l’eredità della bottega è nella mani di Evelina, quella da leader è in quelle di un altro figlio di Alberto, Claudio, che è segretario generale dei gelatieri e dei pasticceri italiani e presidente della stessa AEPER. Ogni giorno il bar Pica aiuta Roma a cambiare un po’ meno. L’habitué fa la pausa pranzo da Pica, con primi e secondi fatti in casa, ma il vero intenditore fa del gelato stesso la sua pausa pranzo.

Carlo Verdone, fino a qualche anno fa, abitava a pochi passi da Pica. Da quando si è trasferito a Monteverde, qui fa delle regolari incursioni col casco integrale in testa, come un rapinatore, facendosi riconoscere solo da Maria ed Evelina. Se mai un giorno entrasse un vero malintenzionato così conciato, chissà, forse le signore ne sventerebbero la rapina offrendogli il gusto preferito dell’attore.

Semplicemente a innamorarsi della nocciola o tra di loro.

Processioni di ragazzi e ragazze vengono qui a espiare le colpe di lunghi anni d’infanzia trascorsi a somministrare a parenti e amici prodotti della gelatiera Dolce Gelato ‘90 Harbert, o semplicemente a innamorarsi della nocciola o tra di loro. Generazioni di ministri di Grazia e Giustizia, dirimpettai del bar, appena lo scoprono, puntualmente fanno di Pica un secondo gabinetto. Intere formazioni titolari della Roma ci vengono in ritiro, così come giunte comunali in seduta plenaria e reggimenti in libera uscita.

Tra le altre cose, Pica è una mecca del gelato d’inverno, consacrata in questo ruolo dal gusto panettone, tra le ultime novità di Maria. Consigliamo a tutti il piacere di sentirsi un po’ fuori legge, circondati dalle volanti della polizia penitenziaria, in pieno gennaio, a piede libero con un cono al mandarino.

D’estate vengono anche molti turisti, che di Pica apprezzano il dehors, con le sedie in plastica, anch’essa genuina, e le birre fredde almeno quanto il gelato. Le guide hanno imparato ad accompagnarceli apposta, aggiungendo, alle spiegazioni sul portico d’Ottavia, anche una parte su come distinguere le gelaterie che nella miscela mettono il semilavorato da quelle che mettono il cuore dentro lo zabaione.

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Sara Cervelli

I clienti più difficili di Pica sono certamente i sei nipoti di Alberto e di Maria, di varie dimensioni, ma tutti con lo stesso palato. Quando passano dalla gelateria, anche se alcuni di loro non lo hanno mai visto fare così, compiono tutti lo stesso rituale del nonno, grazie a quell’incantesimo che alcuni banalizzano chiamandolo genetica. Appena entrati, puntualmente, sequestrano una decina di cucchiaini a testa, per passare in rassegna una vaschetta alla volta. E le mani bellissime della sora Maria, che sorride, fanno già il gesto di caricare la lavastoviglie.

Quando Maria parla del marito Alberto si stringe gli avambracci, sempre continuando a sorridere, abbracciandolo con la memoria. Ci ricorda che il gelato di una volta, allo stesso modo dei ricordi, è quella miscela dolce e appiccicosa che tiene unite le persone come i loro polpastrelli, quando un po’ di cioccolato gli si squaglia tra le dita. E che, anche se tutto tende a mescolarsi e ad amalgamarsi, certi coni doppio gusto, dall’abbinamento perfetto, non si scioglieranno mai.