Le serenate del Sud. Le calde, dolci, snervanti notti di Sicilia. Durante tutto il tempo che ne ero stato lontano, il ricordo di quelle notti o, meglio, di una notte, aveva popolato le mie ore di rimpianti di nostalgia. Mi sembra di sentirla, la voce fuori campo de Divorzio all’italiana, mentre il tacchettìo-ticchetìo delle mie scarpe riecheggia tra gli interni borghesi di quello che fu il set di Mastroianni e che, oggi, è il regno del sultano di Ragusa Ibla. In via Capitano Bocchieri 31, sotto lo sguardo austero della cupola del Duomo, tra le viuzze labirinto garbate/sdolcinate/liriche, sicule in una e una sola parola, Palazzo La Rocca è la scenografia del più sontuoso matrimonio della Sicilia. Quello fra tartufo e rosmarino, melanzane e menta, scoglio e limone, ricci di mare e mela acerba. Quello dove il pesce d’amo fa l’amore con la salsa di lattuga e cavolo rapa, dove la lavanda si fa tutt’uno con l’acqua di fiori, dove la crema di latte onora il pistacchio, oro smeraldo della Persia. Qui, dove alla corte di chef Ciccio Sultano ogni cosa sapurita è come dovrebbe essere. Al posto giusto tra viaggio nel tempo stratificato e nello spazio ritrovato, tra tradizione millenaria e futuro avant-garde, tra cucina rispettosa e piacere genuinamente egoistico. Qui dove il ristorante Duomo, 2 stelle Michelin appuntate sulla giacca dal 2006, sapientemente domina le dominazioni di una terra carezzata dal Mediterraneo, Ionio e Tirreno, del continente gastronomico d’Italia.

La finestra a picco sugli ulivi iblei mi trafigge dolcemente il cuore, l’acqua bolle, la pasta fresca è stata calata, il finocchietto selvatico ha incontrato il gin, mentre io, un po’ da fan girl gourmand un po’ da buona forchetta con la Trinacria che sventola in petto, incontro lo chef, le sue menti & bracci destri che fanno cantare le mie origini attraverso una jamming session di culture.

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Marco Zanella

Qual è quel cibo che, come la madeleine per Proust, ti riporta indietro nel tempo?

Il profumo della crosta del pane e la granita di limone. Ripenso a me bambino, alle colazioni di primavera, al campanello squillante dell’uomo che passava col carretto per annunciare che la bella stagione era arrivata.

E il tuo primo ricordo in cucina?

Mia nonna che, quasi cieca, riusciva a stendere la pasta fresca e cuocere il sugo “a memoria”. Io iniziavo a pizzicare la pasta cruda, la assaggiavo, la mangiavo scondita mentre il pomodoro cuoceva a fuoco vivo.

Tu in cucina, i tuoi ospiti in sala: come si comunica solo attraverso i piatti?

Il linguaggio delle ricette è molto complesso perché parte sia da un ricordo che da un elemento storico. Io sono un grande appassionato di storia, soprattutto siciliana, e mi viene spontaneo pensare alla nostra terra come ad un luogo centrale, un continente che ha sempre fatto gola a tutti i popoli che sono entrati più o meno in punta di piedi a dominarla. Questo concetto mi stuzzica molto e voglio trasmettere agli altri la curiosità di scoprire cosa c’era sulle tavole del 700 dopo Cristo, poi in quelle dei bizantini, degli arabi, degli angioini… Ed è proprio questa stratificazione che nel 2017 si è materializzata in un menu, Dominazioni Siciliane.

Un cantastorie stellato che però non ama i discorsi troppo campanilistici o passatisti…

No, perché ai nostri livelli non si è solo cuochi, non si può parlare solo di mamma e di nonna. La cucina è qualcosa di molto più ampio, è un mezzo che ha unito i popoli, ad esempio è la protagonista delle cene dove si sono decise tutte le strategie che hanno cambiato la storia dell’uomo. Non si può isolare un cuoco ad una cucina domestica, sarebbe troppo riduttiva e quasi una scorciatoia. In barba ai francesi che ci prendono in giro dicendo che siamo in grado di riprodurre solo la cucina della nonna, io direi che noi facciamo la cucina della nostra storia. E si tratta di una storia molto importante.

Ah sì? E su cosa potrebbero mai avere da ridire?

Beh, per dirne una, i tipici ravioli di ricotta ragusani con il sugo di maiale. Per noi che la facciamo, l’abbiamo fatta diventare tradizione e l’abbiamo digerita, in tutti i sensi, questa ricetta è semplice. Ma il preparare una crema di ricotta, stendere una pasta, fare un sugo delle feste, comporre tutto insieme… Insomma, se oggi li inventasse un cuoco sarebbe pura innovazione.

Possiamo dire che il tuo è un campanilismo razionale?

Credo che Sicilia non sia solo cannolo, cassata e caponata, ma è molto molto altro. Da siciliano, da cuoco e da imprenditore ho sempre sentito il bisogno di dovermi liberare da quella patina di folklore. Certo, i temi de Il Padrino sono stati un pezzo di storia della Sicilia, ma non sono tutto.

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Da chef bistellato, senti di avere delle responsabilità nei confronti del cliente?

Quella di farlo divertire. I miei menu sono come i diversi atti di un’opera, il cliente deve abbandonare il teatro con la sensazione di aver visto uno spettacolo.

A proposito di dominazioni, da pochissimo hai conquistato l’Austria.

Sì, lo scorso 3 dicembre ho aperto Pastamara Bar con Cucina al Ritz-Carlton di Vienna. Un bistrot informale firmato Sultano dove “si parla siciliano” attraverso i piatti e i profumi della nostra terra, un progetto nato anche grazie a Christian Zandonella, general manager dell’hotel.

Dalla Torta Perpetua al Cous cous omaggio alle suore del Monastero di Agrigento, alcuni passi del tuo menu sono quasi Sorrentiniani.

I monaci sono i detentori dei segreti della cucina di tutto il mondo. Hanno riscritto le regole della gastronomia senza affidarsi alla tecnologia, creando opere d’arte culinaria opulente, complesse, preziosissime.

Mi racconti la storia di uno dei tuoi piatti simbolo?

Sì, quella degli spaghetti taratatà, a base di bottarga, pesto alle erbette citriche ed estratto di carote. Un piatto che vuole ricordare la festa della Madonna nera delle Milizie di Scicli, che compare in aiuto ai normanni per scacciare gli arabi dalla città, riuscendoci. Taratatà è proprio la voce onomatopeica che simboleggia il rumore degli spari.

Ti definisci uno “chef del mettere”.

Perché sono un cuoco stratificatore, come stratificata è la storia culinaria (e non) della Sicilia. Non si tratta di essere barocchi, ma personalmente mi sento più completo così.

C’è un limite alla concettualizzazione estrema di piatti e materie prime o credi che in cucina tutto sia concesso?

Si rischia di fare una cucina spoglia quando non si ha una storia dietro. O, peggio, quando non la si studia abbastanza da creare la storia del futuro. Un meraviglioso esempio nostrano? Massimo Bottura e le sue radici fortissime.

Anche tu, come lui, hai una grande donna alle spalle. Gabriella Cicero, direttore generale del Duomo.

Facciamo chiarezza: né Lara (Gilmore, business partner e moglie di Massimo Bottura, ndr) né Gabriella sono due donne che stanno dietro. Stanno accanto a noi. L’intelligenza sta nel dividere vita privata e lavoro, che per me è primario rispetto alla famiglia. Se non abbiamo un buon lavoro non possiamo portare avanti una buona famiglia.

Non tutti avrebbero il coraggio di ammetterlo…

Non c’è niente da nascondere, per me è così. Per me è fondamentale la qualità dell’amore che dai ad una persona, non quanto ne dai.

Se uno chef perde l’ispirazione che succede?

Più che perdere l’ispirazione ci sono momenti di crisi, di crescita, mancanza di idee… Se ne può venir fuori raccogliendo le sensazioni che si hanno dentro, studiando e sperimentando.

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Benedetto Tarantino

Per i greci, sinonimo di uomo era “mangiatore di pane”. Tu hai preso questo adagio e lo hai trasformato in un emporio della panificazione. Che, detto fra noi, è l’arte sicula di cui dovremmo andare più orgogliosi.

Il pane è un biglietto da visita, un segno di civiltà, un’attenzione che è uno stile di vita. Per questo, insieme al mio socio Peppe Cannistrà, ho aperto I Banchi, un esperimento riuscito di “cucina educata”, un luogo per fare colazione e intanto pensare alla spesa, per sedersi di fronte a una carta di cocktail oppure ordinare la torta di compleanno… Il tutto negli spazi monumentali di una carrozzeria di un palazzo settecentesco a Ragusa Ibla.

Il tuo lavoro coincide con la tua vita e reputazione. Come si fa ad affidarlo a collaboratori spesso giovanissimi?

Intanto bisogna avere l’indole da talent scout, ovvero capire chi è davvero valido a fare questo mestiere. Poi, bisogna dare loro progettualità e dignità, solo in questo modo una persona può crescere insieme e affianco a te.

Venendo alle dolenti note: cosa ne pensi della la disoccupazione giovanile in Sicilia?

Penso che ci sia poca voglia di fare e che si desideri tutto e subito. È anche vero che oggigiorno un giovane non ha le opportunità che meriterebbe… Il segreto forse sta nel capire cosa vogliamo da noi stessi e lavorarci, perché trovare un futuro in Italia è possibile.

Consideri i tuoi menu delle confessioni al commensale. Mi confidi il tuo guilty pleasure di fronte al frigorifero?

I cioccolatini ripieni di nocciole e la pastina in brodo con olio d’oliva.

Hai scritto “Considero il vino non solo un succo che dà felicità, ma un alimento”. Che significa?

Bere il vino non per ubriacarsi ma per godere del cibo lo trasforma in un alimento.

Rinunceresti mai alle tue stelle?

No, anzi sto lavorando per ottenerne un’altra. Se me le tolgono vuol dire che non ho lavorato abbastanza o non ho rispettato gli standard che la Guida Michelin si è posta nei confronti dell’Italia. Credo che avere una stella sia una grande responsabilità, ma devi anche difenderla per renderla solida e farla diventare un progetto a lungo termine.

L’ingrediente più sopravvalutato dai tuoi colleghi?

Forse perché non lo amo io ma… il coriandolo.

E il più sottovalutato?

Da siciliano direi il finocchietto selvatico.

A proposito, hai trasformato il legame primitivo con la campagna in un progetto imprenditoriale.

Sì, con Aia Gaia. Un progetto pilota per la produzione di uova e pollame nato dal desiderio di pensare l’allevamento a terra in chiave bio-sostenibile. Ma, perché no, anche per il sano egoismo di mangiare buona verdura, carne e uova.

Dove finiscono le tue dita inizia un calice di…

Rosso del Conte di Tasca D’Almerita, la sintesi della storia del vino siciliano, o di Etna Bianco Pietradolce di Faro, voluttuoso e affascinante.

Te lo devo chiedere: arancinA o arancinO?

Mi dispiace per i catanesi ma per noi è donna. Arancina.

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© Marco Zanella/CESURA
Ragusa Ibla "vista da" Via Capitano Bocchieri