In base al continente da cui la si legge, la notizia della cessione alla Ferrero di un certo numero dei marchi diversamente salutari della Kellogg’s – molti biscotti, alcuni snack dolci, qualche gelato – ha molteplici significati. L’operazione della Ferrero rappresenta molto più che una transazione economica. È un patto di ferro (più vitamine B e D) tra due differenti filosofie aziendali e tra due diversi approcci nazionali al comfort food; tra ambiguità e schiettezza; tra senso di colpa e auto-assoluzione; tra gli All-Bran e la Nutella.

Guardando le cose dal fronte italiano, si tratta di un’inconsueta occasione di rivalsa nei confronti di un imperialismo USA che, fin dalle prime ore del mattino, per troppi anni, ci ha ricordato della nostra dipendenza dagli americani e dal loro riso soffiato. D’altro canto, per i produttori di Special K, Miel Pops e Nutri-Grain, la notizia è un primo passo verso l’espiazione di alcune delle colpe accumulate in 113 anni vissuti pericolosamente, una tabella dei valori nutrizionali alla volta, sempre sul filo della glicemia. Non c’è rimorso post-industriale, infatti, che non possa essere annegato in una tazza di latte parzialmente scremato, o rifugiandosi tra le braccia materne di una multinazionale dolciaria piemontese che la sa troppo lunga, in fatto di kilocalorie, per non perdonare una panzana salutistica o due.

I cereali da colazione, tra tutti i cibi istantanei che l’uomo abbia inventato, sono quelli che somigliano di più a un cibo sano. Il caso vuole però che, se consumati fuori dall’ambito della colazione (ove per colazione non si intenda qualunque pasto consumato in pigiama, anche oltre il tramonto), gli stessi prodotti facilmente costituiscano un grado di abbrutimento gastronomico che precede giusto di un pizzico di lacrime e carboidrati, in una scala da uno a Bridget Jones, quello legato al consumo in solitaria di mezzo chilo di gelato, direttamente in vaschetta. Chissà come mai.

Il fatto è che i cereali Kellogg’s che oggi sono celebrati in tutto il mondo come il modo più calorico per essere vegetariani, nacquero nel Midwest sul finire dell’Ottocento, grazie alla scoperta (fatta, a dire il vero, qualche anno prima) che l’eccesso di proteine di origine animale avrebbe stimolato troppo le passioni carnali. La storia dei Corn Flakes è, almeno in principio, una faccenda di Michigan e pruderie, prima ancora che di deboscia e buffet alberghieri. Fu un avventista del settimo giorno di nome John Harvey Kellogg a commercializzare il primo cereale così ricco di fibre, sia commestibili che morali, da costituire un toccasana tanto per la pigrizia dell’intestino quanto per gli impulsi sessuali. I primi granola furono distribuiti come soluzione, in un colpo solo, alla stitichezza e alla masturbazione. Il tutto avveniva in un sanatorio, una specie di spa/clinica per dimagrire, nella regione dei Grandi Laghi. Il secondo grande colpo di genio di Kellog fu venderli a dieci volte la somma delle materie prime utilizzate per produrli. Nacquero così prima un’azienda e poi un impero.

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Innovazione dopo innovazione, conservante dopo conservante, le caratteristiche dei prodotti rassomigliavano sempre di più a quelle di veri e propri dolci, camuffati da granaglie. Dal timido esordio dei Frosties – dei semplici Corn Flakes glassati allo zucchero – si passa ai più portentosi Coco Pops, che trasformano il latte in cioccolato; e si giunge fino al trionfo del metafisico, costituito oggi dai Froot Loops all’unicorno.

La crescita della Kellogg’s è più legata all’evoluzione del linguaggio pubblicitario che a quella della dietologia. Per questo, alla fine degli anni ‘40, l’incontro tra Kellogg’s e Leo Burnett è stato decisivo per la definitiva consacrazione dei cereali per la colazione nei desideri alimentari dell’Occidente, fatte le dovute proporzioni, almeno quanto lo è stata nonna per l’affermazione del Kinder Sorpresa in casa vostra. Potenti come e più del saccarosio, gli additivi che hanno fatto la differenza sono state le emozioni. L’emozione di crescere, quando si è ancora bambini; l’emozione di decrescere, sia sulla bilancia che all’anagrafe, quando si è già adulti. Così Kellogg’s è diventata la realtà che oggi tutti conosciamo e, nel momento del bisogno, consumiamo.

Per tutti questi motivi, il suo incontro con la Ferrero non è stato meno significativo di un caso di nozze mistiche, come furono quelle tra amor sacro e amor profano nel celebre dipinto di Tiziano; solo, una ventina di chili – a testa – dopo. L’entità superiore e divina, femminile e perfetta (in questo caso, rivelatasi tramite la Nutella) concede a una manifestazione terrena dell’uomo, imperfetta e tendenzialmente fallace (Kellogg’s), di unirsi a essa. Il peccato in questione è quello di essersi illusi di poter esercitare il mestiere di dispensatori di snack dolci senza accettare fin dal principio, cosa che invece ha sempre fatto la Ferrero, che la propria più autentica missione sia quella di farci vivere paffuti e felici a furia di rimpinzarci di cose buone e dolci.

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Anche se non si dovrebbe mai rivelare l’età di una signora, la Ferrero è nata nel 1946. Al confronto di Kellogg’s è solo una ragazza-madre, seppure dal profilo molto battagliero. Per le sue mire espansionistiche, la conquista del mercato dei carenti d’affetto statunitensi (cominciata con la presa delle barrette dolci Nestlé, all’inizio del 2018), potrebbe risultare quello che fu la conquista della Gallia per la Roma dei Cesari. La Ferrero – avuta la meglio su una competitor del rango di Hostess Brands, madre dei Twinkies, regina dei Donettes, protettrice dei Cupcakes – prende possesso dei marchi Kellogg’s più difficili da piazzare sul mercato di oggi, soprattutto per chi fosse ancora incastrato in una retorica multivitaminica ed energizzante. La Ferrero, di certo, non lo è.

I principali brand passati di proprietà questa settimana sono cinque. Keebler ha 160 anni di storia, quasi come Kellogg’s e Ferrero insieme e, da solo, è il secondo produttore americano di biscotti, crostatine alla frutta, wafer e cracker. La sua mascotte è un elfo canuto che non sembra mangiare molto sano, eppure va lontano, grazie alla sua magia (come da slogan utilizzati sugli storici camion: “A Little Elfin Magic Goes A Long Way”). Famous Amos è un marchio specializzato nei biscotti in miniatura con gocce di cioccolato in miniatura, dall’aspetto casereccio. Amos (classe 1936) è vivo ma non lotta insieme a noi: ha venduto da tempo l’azienda e si è stabilito alle Hawaii, dove ha creato un nuovo business, sempre di biscotti, sempre con gocce di cioccolato (“The Cookie Kahuna”). Mother’s è un marchio di biscotti premium destinati alle famiglie, identificato in una madre che ha preferito restare anonima, al contrario di quello che avviene per tantissimi altri brand americani che, pur essendo materialmente sfornati da intelligenze artificiali complesse come e più di quella di HAL 9000, continuano a essere attribuiti alle varie Aunt Jemima, o allo stesso, famoso Amos sopra citato. Nel caso di Mother’s l’entità materna è astratta, come una mater matuta particolarmente versata nel settore bakery. Murray's fa biscotti con poco o senza zucchero, ma con tutto il resto. Little Brownie Bakers è il principale e storico fornitore dei biscotti ufficiali delle ragazze scout americane, sostituendosi alle scout e alle mamme delle scout fin dal 1936. Pioniere del crowdfunding ante litteram, è stato per decadi fonte pressoché inesauribile di citofonate indesiderate (oggi la vendita è in gran parte digitalizzata).

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Per apportare un possibile beneficio alla nostra flora intestinale, una barretta ai cereali Kellogg’s, privata dal processo produttivo delle migliori sostanze nutritive appannaggio delle sue materie prime, è costretta a vedersene aggiungere altre artificialmente, in post-produzione. Il vantaggio competitivo di un prodotto come la Nutella è che non ha mai preteso, neanche per un cucchiaino, che la sua crema, scura e magmatica, non avrebbe fatto bene ad altro se non allo spirito di chi la spalmava, per sé o per i propri cari. La Nutella assumerà sempre le forme che le vorremo dare, che siano quelle di una crêpe, di una fetta di pane di Altamura o, più semplicemente, del nostro cuore martoriato dalla contemporaneità, e bisognoso solo di un poco di bontà.

Contro il doppiogiochismo yankee, trionfi allora il candore dell’impresa dolciaria italiana. Perché per ogni semi-adulto angosciato del Michigan che sommerge di yogurt senza lattosio una ciotola da chilo di cereali ricchi in fibre, c’è sempre un bambino italiano sorridente, che inzuppa Tronky nel latte intero.

La cosa più deprimente che sia mai accaduta ai Rice Krispies è quando, nei primi anni 2000, lo chef decostruttivista Ferran Adrià posò una riduzione di zuppa di mare su dei chicchi di riso soffiati, intitolando il piatto: Kellogg’s paella. La cosa più triste che potrebbe mai accadere a un vasetto di Nutella è non essere consumato fino all’ultima spatolata geometricamente sostenibile.

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È questa la più importante lezione che l’industria dolciaria italiana può impartire a quella americana: la buona fede ad alto contenuto di grassi che prende il posto del puritanesimo un tanto all’etto. La sensualità come forma di onestà intellettuale e commerciale. Ferrero è oggi l’azienda italiana con la migliore reputazione al mondo, e l’azienda alimentare con la migliore reputazione in assoluto. Questo avviene perché usa l’olio di palma migliore? O perché non fa promesse da reverendo e continua a fare quello che fa da sempre, facendolo, tra l’altro, benissimo?

Che vittoria, per la duttilità magmatica della nostra crema alla nocciola, per la croccantezza sempre disponibile e affidabile dei Ferrero Rocher, per il cuore perfino alcolemicamente rilevante di un Mon Chéri, quella appena segnata sulle distese di mais baciate dal sole del Midwest. Se queste ultime sono figlie della comunicazione, gli altri sono tutti nipoti prediletti di lunghe pratiche quotidiane di spalmatura, scartamento, addentatura.

Perlomeno in fatto di merende, se continuiamo così, tra un po’ potremmo essere davvero imperialisti di ritorno. Come gli antichi romani, stiamo facendo nostra parte della cultura dei popoli che dominiamo o che domineremo. Prendete i pancake: per quanto ci piaccia fare gli americani, quelli che ci riescono meglio, col cavolo che li sacrifichiamo allo sciroppo d’acero. Per dirlo bene: Nutella omnia vincit.