Un bambino che gioca con la pasta di pane messa a lievitare, punzecchia quella massa soda che si gonfia seguendo ogni volta un mistero glorioso diverso. Questo si vede negli occhi di Valentino Tafuri pizzaiolo tra i migliori d'Italia secondo Gambero Rosso. Ma per lui di segreti ce ne sono sempre meno, anche se gli piace di più cercarne di nuovi, al ritmo lento di quella maturazione silenziosa che può riservare sempre sorprese. La pizza per Valentino Tafuri è una passione incanalata, non lo nasconde. Sorride sotto la massa di riccioli compatti, il movimento delle mani infarinate dalle lunghe impastate, controlla con attenzione e dolce nervosismo che il sodale Donato esegua al posto suo la sinfonia di gesti che garantiscono la certezza della riuscita. Siamo all’apertura della Città della Pizza al RagusaOff di Roma, tre giorni di eventi e degustazioni con pizzaioli provenienti da tutta Italia che catalizzano l’attenzione di appassionati e golosi di professione. Valentino Tafuri è in trasferta con le sue 3 Voglie, il nome della pizzeria di Battipaglia dove è nato e cresciuto, e vuole che la coccola al palato esca come la migliore delle ciambelle dal forno che ha in dotazione. Ma spariglia le carte, Valentino Tafuri non vuole farsi incasellare solo perché sa fare la pizza (e su questo le certezze sono multiple) e rifugge ogni tipo di dicitura modaiola. I lievitati per lui sono una missione di studio, ogni derivazione di curiosità è una risalita verso la matrice principale, il matrimonio segreto tra i batteri, l’umidità, il calore. E l'umiltà di non guardare da un podio, meglio consolidare il gradino in basso. La pizza non è una gara, per lui.

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Courtesy 3 Voglie

Spiegaci innanzitutto cosa sono le 3 Voglie. Perché la tua pizzeria si chiama così?

3 Voglie nasce 6 anni fa, quando dalle mie parti non c’era una pizzeria che potesse essere definita quasi ristorante. È la volontà di avere un luogo dove si mangia, si beve e c’è convivialità. Sono 3 desideri. Nelle pizzerie tipiche ci sono le patatine, la partita, la coca cola. Da noi non c’è nulla di tutto questo, ma la convivialità sì. Viene dal fatto di metterti a tavola con chi vuoi, la tua donna, un amico, e goderti il momento. La sala è gestita come un ristorante: il nostro responsabile è in giacca e cravatta. C’è il tovagliato, ci sono i calici. La sala è centrale, oltre al lavoro dietro. In passato veniva tralasciato il servizio e si faceva in modo più casalingo: non lo sto criticando, però dalle mie parti mancava un servizio più attento.

Parliamo di pizza, nello specifico della tua pizza: stai facendo una grandissima ricerca sugli impasti, ma la tua non è pizza gourmet…

No, no, infatti. Partiamo dal presupposto che io odio la pizza gourmet, tranne quando fatta da i miti che io seguo e sui quali libri studio. Credo che la pizza gourmet in Italia possano farla Simone Padoan, Renato Bosco, persone che sanno anche cucinare.

Fare una focaccia poi metterci sopra mortadella e ricotta non significa fare una pizza gourmet.

Ci vuole una ricerca, un laboratorio di cucina dietro?

Sì. Lì si parla di pizza gourmet per davvero. Noi siamo a Battipaglia, una terra di mezzo tra Napoli, vale a dire la grande tradizione napoletana, e il Cilento, che è un polmone di prodotti incredibili. La regione Campania ha un altissimo numero di presìdi Slow Food (33, terza regione in Italia dopo Sicilia e Piemonte, nda), ha tante eccellenze. E queste diventano il nostro topping. Per quanto riguarda Napoli… Io sono nato come pizzaiolo a 13 anni con la pizza battipagliese, una pizza impastata velocemente: andavamo alle 17 in pizzeria a impastare e alle 19 iniziava il servizio, figurati cosa veniva fuori. Ho avuto la fortuna di incontrare un maestro napoletano, Gennaro Esposito, che mi ha trasmesso un sacco: il pizzaiolo napoletano, a differenza di tutti gli altri del mondo, ha amore per quel lavoro e per quello che fa. Con lui ho fatto 3 stagioni a parlare di pizza mattina e sera, un’immersione totale. Mi veniva a svegliare alle 6 di mattina col caffè e mi diceva “Guaglio’, i’ a fatia’”, era bellissimo. Quella pizza napoletana, però, non la sentivo mia. Abbiamo iniziato ad abbassare la temperatura del forno per dare un sapore più panoso, cuociamo a 350° con un blend di farine che variano dal tipo 0 al tipo 1.

Ti rivolgi a mulini specifici per le farine, hai fatto sperimentazioni particolari?

Lavoriamo con vari mulini. Secondo me ci sono aziende che fanno un ottimo prodotto per la panificazione, altre che producono farine per i croissant, altre che hanno un rapporto per la pizza favoloso. È come per i pizzaioli: c’è chi è bravo nella napoletana, quello bravo nella pizza in teglia… Anche nel mulino è così. Non arriva il salvatore che sa fare tutto. Ci sono mulini che producono per la pizza napoletana ed è inutile imitarli. Altri però, come noi, fanno una “pizza di pane” che è spettacolare (sorride).

La chiami pizza di pane. Perché?

Dopo l’evoluzione della pizza napoletana, siamo stati contaminati dalla pizza cilentana che si fa nella zona, e che nasce dall’impasto del pane. Si fa ancora nel Cilento. Quando si prepara il pane un po’ di panetti vengono stesi nei ruoti, le teglie di ferro tonde, poi vengono fatti lievitare, si mette un po’ di pomodoro e si infornano prima del pane. La sequenza esatta prevede prima il viccio, un pane cilentano con un buco centrale che si usa per testare la temperatura del forno, poi la pizza e infine il pane. Grazie alla cilentana abbiamo iniziato a studiare il pane e la panificazione. Oggi io lavoro con un lievito madre liquido e un lievito madre solido. Quando ho bisogno di delicatezza uso il lievito madre liquido, mentre per il pane usiamo il lievito madre solito perché ho bisogno di una spinta maggiore e di un sapore più intenso, di un’acidità che sia più marcata rispetto a quello liquido.

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Courtesy 3 Voglie

Il tuo pane com’è?

Per ora sono un pivellino, lo ammetto. Ho studiato le baguette e ho fatto un po’ di esperienza con un boulanger francese che mi ha trasmesso questa passione. Oggi studio un pane un po’ americano, da una lievitazione naturale con lievito madre, 28 ore di maturazione a temperatura controllata, con una crosta molto sottile ma molto friabile. il sapore è intenso, con un lievito madre che funziona tutto diventa spettacolare. La farina che usiamo nasce da un progetto siciliano di recupero, è una farina evolutiva. La loro storia è bellissima, quando l’ho sentita mi sono detto che quella farina doveva essere mia per fare il pane: un barcone che arriva in Sicilia dalla Siria, dentro avevano un sacco di cereali. Hanno fatto un campo sperimentale, hanno testato i cereali e hanno iniziato le coltivazioni. È una tipologia di grano mista, non c’è selezione. Dal mulino arriva da noi che facciamo i prodotti.

Ma per fare tutti questi miracoli di alchimia a che ora ti alzi la mattina?

(Ride) Guarda, lascia perdere, la mia ragazza mi vuole lasciare!

Hai 30 anni appena compiuti, hai iniziato a 13 anni, quindi più della metà della tua vita l’hai passata a fare pizza…

Vorrei andare in pensione, te lo giuro (ride). Scherzi a parte, quando hai la tua attività inizi a battagliare davvero. Più vuoi fare, più fai. Sei anni fa, quando ho aperto con la mia famiglia, ci ho piano piano sbattuto la testa. Oggi siamo in una fase di evoluzione totale e presentiamo gli impasti nuovi, come quello dedicato alla mia città che compie 90 anni. Utilizziamo l’estratto di lattuga per impastare, con una farina di tipo 1: diamo vita ad una focaccia verde condita con mozzarella di Battipaglia e datterino giallo, sempre della zona, e olio delle colline salernitane all’uscita. La lattuga la usiamo perché dalla piana del Sele si esporta quasi l’80% delle verdure che vengono mangiate in Europa, come lattughino, rucola e simili. Se domani mattina i contadini e le aziende non producono più, l’Europa rimane senza verdure.

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Poi c’è la pizza a tripla lievitazione, un nome che le abbiamo dato noi. L’impasto matura prima nelle madie, poi una seconda maturazione tagliata in panetti, e infine la terza direttamente nei ruoti prima di essere infornata. Molte pizze seguono questo processo, in realtà: io la preparo con il 20% dei farina d’orzo, la biga è preparata col lievito madre solido. I lieviti entrano in modo diverso in tutti gli impasti. Ho pensato ad una ricetta di pizza vegana, che va in contrasto con le mode del momento. La moda del foodporn, le pizze strapiene ci hanno un po’ stancato: in questo modo abbiamo una pizza semplice, con paté di carciofi, patate e un soffritto.

Ma la tua pizza preferita qual è?

La pizza cilentana, la adoro. Ha un forte sapore di pane e ha una grande scioglievolezza. Quando mangi una pizza che sa di pane ed è molto morbida, hai fatto bingo. E poi la margherita, è semplice. Però la margherita di impasto nostro classico, cotta a 350°. Per me è la rosé, con la mozzarella e il parmigiano in cottura. Se dico “ragazzi fatemi un attimo una pizza al volo” sanno che è questa. E con l’olio a crudo.

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Come mai l’olio a crudo?

Il mondo pizza cambia tantissimo. Napoli è un conto a sé, hanno la loro tradizione e la rispettano. Noi siamo al di fuori del Napoletano, Salerno è completamente estraniata da ciò che accade a Napoli, Caserta o Benevento. Salerno è una regione a sé, non dico che sia migliore o peggiore: è solo diversa. A Napoli si mette l’olio in cottura, noi a crudo. Non è una cosa strana, ecco.

Visto che per esperienza sei un veterano del mestiere e dici che c’è tanto da fare, cosa pensi ci sarà nel tuo futuro?

Penso che mi allontanerò un po’ dal mondo della pizza. A stare una serata intera in pizzeria non mi ci vedo per tutta la vita, intendo. Vorrei un laboratorio dove posso produrre croissant, pizze, pani, sperimentare tanto altro ancora e poi avere qualche posto per le degustazioni, per un percorso e un’esperienza. I locali con molti posti mi hanno stufato. Vorrei una cosa più piccolina, nel laboratorio produci per mandare fuori i tuoi prodotti. La pizza significa intercettare un cliente in quel momento esatto, ha una vita di 10 minuti; un pane, un croissant, possono avere una vita più lunga. Fare il pane è spettacolare, mi ha aperto gli occhi. Ed è un’altra cosa: cuoci il pane e impari a cuocere la pizza.

Gli impasti chiamano, Valentino Tafuri non vuole farli aspettare. Saltella rapido al suo bancone, offre pane caldo, racconta i croissant al burro fragrante che crepitano ad ogni tocco (“Li puoi farcire dolci o salati, a piacimento, così sono tutti contenti”), manovra la pala per sfornare un ruoto di pizza Margherita fumante, generosamente filante di mozzarella, che sarebbe in grado di convertire un ateo al primo affondo di denti. Di fronte alle bocche spalancate e ai mugugni di passione del pubblico, Valentino Tafuri abbassa gli occhi e torna ad impastare. L’eccellenza ambiziosa ma definita, sicura, di chi non ha davvero bisogno di certificazioni.

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