Come sono stati ottenuti i materiali per fabbricare il nostro smartphone? In che modo è stato estratto il brillante del nostro anello di fidanzamento? Da dove vengono gli ingredienti di quello che mangiamo? Molte star di Hollywood sono attente a questi temi etici: Leonardo DiCaprio nel 2006 si è prestato a girare il film Blood Diamond sul contrabbando di diamanti insanguinati nella Sierra Leone e la Liberia, mentre Jessica Alba, 50 Cent o i Coldplay si danno da fare con le campagne per assicurare un sistema planetario in cui il cibo prodotto nei paesi in via di sviluppo sia solo equo e solidale, lavorato da braccianti e contadini di cui vengano rispettati i diritti, e da coltivazioni sostenibili. Entrando in modalità “no, vi prego, non lo voglio sapere”, fa male pensare che una fetta molto grossa del problema riguardi delizie come il caffè e, peggio che peggio, il cacao. "Quanto è etica la tavoletta di cioccolato che sto scartando" è la nuova domanda che si pongono negli Usa anche quelli che star non sono. La bomba emotiva è scoppiata più o meno dopo l’uscita di un recente articolo sul Washington Post, che denuncia le scorrettezze di grandi marchi storici mondiali di snack al cioccolato. La loro colpa? Approvvigionarsi di cacao anche da produttori che utilizzano manodopera di schiavi bambini. Ovvio: se vendi in tutto il mondo milioni di tavolette e barrette, come ci si può aspettare che tutto il cacao che c’è dentro sia etico?

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Quella dei bambini lavoratori è una questione complessa e spesso ignorata. In pochi ormai ricordano Iqbal Masih, il bambino pachistano divenuto il primo sindacalista per i diritti dei minori, che si era ribellato alla schiavitù e che per questo è stato ucciso in circostanze ancora misteriose a soli 12 anni, nel 1995. Dopo di lui, nel 2005, sono saliti alla ribalta internazionale i bambini sindacalisti della Bolivia che hanno chiesto invece il riconoscimento legale a partire dai 10 anni in su. Perché l’alternativa per loro, se perdessero il lavoro, è la fame, per cui, tanto vale avere almeno dei diritti sindacali. Dal nostro punto di vista "occidentale", c’è solo da dire che nessun bambino dovrebbe essere messo in condizione di fare una scelta del genere, perché non è comunque una libera scelta. Si dovrebbe fare in modo che non esitano più paesi dove un bambino debba lavorare a 10 anni invece di studiare e giocare. In attesa di risolvere una questione così complicata, l’unica possibilità che abbiamo è quella di ridurre il consumo del cioccolato “immorale” a favore di quello etico, che permette invece a braccianti e contadini adulti di guadagnare abbastanza per mantenere i propri figli, senza bisogno di mandarli a lavorare a 8 anni, se non addirittura di venderli come schiavi per fame.



La maggior parte dei bambini schivi nelle piantagioni di cacao sono in Costa d’Avorio, quasi tutti arrivati dal Burkina Faso, uno stato che l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati definisce “in perdurante situazione di insicurezza”. L’inviato del Washington Post ha parlato con un ragazzino in una piantagione che ha dichiarato di avere 19 anni. Ma appena i suoi supervisori si sono distratti ha scritto nel terreno il numero 15 e gli raccontato di essere lì da quando ne aveva 10. Circa due terzi della fornitura mondiale di cacao proviene da quelle zone, dove oltre 2 milioni di bambini devono sgobbare molte ore nelle coltivazioni del cacao perché costretti dalla fame. Le grandi aziende che si riforniscono da queste piantagioni hanno annunciato più volte di aver avviato programmi per sradicare il flagello del lavoro minorile. Prima scadenza: il 2005: mancata. Poi rilanciata per il 2008 e poi 2010. Mai rispettate. Tutto sommato, se la povertà estrema genera manodopera a basso costo permettendo di massimizzare i guadagni di un prodotto, perché dovrebbe debellarla proprio chi beneficia di quei ricavi? Nomi che producono il cioccolato più famoso del mondo come Hershey, Mars and Nestlé si sono impegnati da tempo a non utilizzare cacao ottenuto sfruttando il lavoro dei bambini. Ma ne trattano quantità così ingenti che non possono certificarlo con certezza, che sia volutamente o perché a volte il prodotto passa attraverso filiere oscure.

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Quale cioccolato possiamo mangiare senza senso di colpa che si aggiunge a quello delle calorie? Non è difficile capirlo. Così come un bell’abito che costa quanto una pizza con birra non può essere stato cucito senza sfruttamento di un operaia/o sottopagato, il discorso vale anche per il cioccolato. In un bell’articolo sul tema uscito su Mic.com (di cui abbiamo citato il titolo, perfetto), Dena White, Marketing Manager statunitense per Tony's Chocolonely, un marchio di cioccolato con sede ad Amsterdam, spiega come stanno promuovendo il loro prodotto come “esente da schiavitù". Tony's Chocolonely si è impegnata a comprare solo fave di cacao tracciabili, di cui l’azienda sa bene la provenienza. Anche in Italia, ad esempio, ci sono aziende come Amedei il cui se il cioccolato non ha esattamente un prezzo mass market non dipende solo dall’altissima qualità delle tavolette, ma anche dall’attenzione con cui si rifornisce. Il prezzo è però solo una pre-selezione, perché secondo il Washington Post, anche famose aziende come Godiva non sono in grado di assicurare che tutto il loro cacao sia slavery free. Per andare sul sicuro serve solo un po’ di attenzione, informarsi e buttare sempre un occhio alle etichette. Il logo Fair Trade sulla confezione, ad esempio, è una certezza, e sul sito Fair Trade Winds si possono consultare i marchi sicuri. D'altra parte, "attenzione" è la parola d’ordine dei prossimi 50 anni. Che riguardi la plastica, il consumo di carne o l’acquisto di abiti di scarsa qualità, che durano solo una stagione e poi vanno a ingrossare le discariche.