Tra i ristoranti stellati di Roma ha una peculiarità tutta sua, già racchiusa nel nome. Dentro Bistrot 64 è tutto molto semplice, immediato, sincero. Da bistrot, appunto. Nella sala di bianco e legno, i bicchieri a fuso dritto sulle vene marmorizzate dei tavoli, non esistono le tradizionali (raffinate) sovrastrutture che funzionano da respingente per il neofita del fine dining. Con in sala l’attento e scattante Emanuele Cozzo a guidare le fila, Bistrot 64 si gode giustamente l'appellativo di ristorante stellato per tutti, un entry level ricchissimo di personalità e stile, unico nel suo genere sulla piazza capitolina. È da qui che si dovrebbe cominciare, con l'umiltà mai propria a tanti, a scoprire il significato di una vera cucina di personalità, fusion senza doverlo sbandierare, funambolica e cristallina come un brodo secolare filtrato. Il deus ex machina di questa eleganza è il placido, ironico chef Kotaro Noda, giapponese doc che ha scelto l’Italia per vocazione e qui ha costruito una carriera brillante, determinata e pacata.

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Courtesy/Andrea Di Lorenzo

Sarebbe fin troppo facile pensare ad un’equazione “materie prime italiane top + tecniche di cottura giapponesi”. Trés banale, troppo riduttivo della pacata filosofia culinaria dello chef. Nei piatti di Kotaro Noda la prima componente è il rispetto per il cibo, l’ingrediente segreto la capacità di smontare ogni eccesso. Un brodo secolare con i broccoletti cancella i chilometri Roma-Giappone, le fettuccine di grano arso aglio/olio/peperoncino con aria di prezzemolo esaltano la località universale, il sandwich di ricciola con acqua di vongole, pomodoro e zucchina viene da eleggerlo a migliore street food stellato ever. Kotaro Noda fa piatti accoglienti per lo spirito: lo spaghetto di patate burro e alici è una perfezione armonica da lontana sinfonia classica, un gioco di pieni rotondi e vuoti freschissimi. Sembra semplicissimo e non lo è. Ma il sapore che avvolge la lingua e scioglie lo stomaco in un sorriso è in grado di abbattere muri e distanze geografiche. È il signature dish che suo malgrado non può togliere dal menu e che ogni volta replica con rigorosa passione. A fine cena, dopo un crumble di nocciola con cubi di gorgonzola dolce, gelato di cavolo viola e spuma di latte e cioccolato, Kotaro Noda si affaccia silenzioso dalla cucina e con deliziosa ironia racconta la sua cucina, in grado di risvegliare con un solletico sensuale ed essenziale.

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Courtesy/Andrea Di Lorenzo
Spaghetto di patate con burro&alici di Kotaro Noda

Cosa facevi prima di fare il cuoco?
Ho studiato marketing in Giappone. Vengo da una prefettura di fronte a Hiroshima, dall’altra parte del mare. Un’isola, tipo la Sicilia del Giappone.

E come sei arrivato alla cucina?
Per mantenermi agli studi sono andato a lavorare nei ristoranti. E mi hanno trattato male, perché tutti erano pazzi (sorride). Mi sono innamorato della cucina dello chef, si chiamava Shirasaki, volevo diventare allievo di questo maestro ma lui non mi ha mai accettato.

E poi sei venuto in Italia…
Avevo deciso di diventare cuoco: ho fatto un viaggio da solo in Europa, ho mangiato in tanti ristoranti. Quelli che mi sono piaciuti di più erano i ristoranti italiani a Milano. Il risotto alla milanese mi ha colpito tanto. Ho cercato di lavorare in Italia ma non era possibile, quindi sono tornato in Giappone e ho cominciato lì, nel ristorante italiano di Gualtiero Marchesi.

La cucina italiana non esiste. Esiste la cucina locale, più che italiana.

Il resto è venuto da sé?
Sì. Ho sempre voluto venire qui.

Come ti trovi a Roma?
Roma è una bella città. È molto caotica ma ormai sono abituato. Sai, tante persone parlano bene di questo paese, ma chi abita in questo posto vede anche un altro lato. Secondo me non c’è nessuno perfetto al mondo: tutti sognano di andare in Giappone, ma noi sogniamo di venire qua. Quello che non si ha, si desidera sempre. Io apprezzo molto di questo paese, ha una dimensione più umana. Lì è tutto troppo stressante, vivi in una scatola: lavoro/casa, lavoro/casa. E poi muori (ride).

Tutti sognano di andare in Giappone. Ma noi sogniamo di venire qua.

Qui invece fai anche altre cose?
Qui c’è la qualità della vita. È stupenda. Secondo me è un modo di vivere più sano, più naturale: per questo la chiamo “dimensione umana”. Un paese che funziona di più vuol dire, secondo me, che qualcosa non va. Un treno ogni 30 secondi non è normale, è disumano.

Ma c’è qualcosa che ti manca del Giappone? Forse la pulizia?
Dopo 20 anni… Niente, quasi. Da poco tempo comunque ho anche un progetto in Giappone e mi sono ritrovato in un paese che praticamente non conosco. I miei occhi non sono più a mandorla, si sono aperti, ora sono più a nocciola (ride). Però ho notato la loro bellezza e finalmente posso apprezzare il mio paese, cosa che prima non facevo perché me ne sono andato troppo giovane. In vent’anni il paese è cambiato totalmente ed è affascinante.

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Courtesy/Andrea di Lorenzo
Verde (Avocado, spinaci, panna e fragola)

A livello gastronomico/culinario, quali sono i punti di contatto che hai trovato tra Giappone e Italia?
Sono due cucine che hanno in comune il rispetto per le materie prime e la semplicità. La differenza è nei condimenti: in Italia c'è la cultura del sale e dell’olio, in Giappone della soia e dello zucchero. Tutte e due amano il concetto di mangiare. Dal lato negativo, sono entrambe cucine molto conservatrici: non vogliono distruggere la loro cultura. Anche voi amate più la tradizione che l’innovazione nel mondo della cucina. Qui c’è una grande storia di duemila anni, e in Giappone uguale. La diversità è che in Giappone sono curiosi, amano mangiare cucine di tutti i tipi, e sono tradizionalisti solo sulla cucina giapponese.

Italia e Giappone hanno entrambe due cucine molto conservatrici: non vogliono distruggere la loro cultura.

E gli italiani?
Mangiano solo la cucina italiana (ride). Che poi la cucina italiana non esiste. Chi parla la lingua italiana corretta? Nessuno, c’è spesso il dialetto. La cucina è uguale: è più locale che italiana. La carbonara per esempio è cucina romana, non italiana.

La pasta al pomodoro, forse, potrebbe essere considerata cucina italiana…
Potrebbe. Il pomodoro, comunque, ha solo 500 anni di storia perché prima non c’era. Eppure le persone mangiavano, e pure bene.

Gli spaghetti pure li abbiamo in comune col Giappone.
La Via della Seta ci ha unito. La pasta comunque piace a tutti in qualsiasi modo.

Tu sei un grande fan dello street food, a Firenze eri un appassionato di panino con il lampredotto.
Io amo mangiare bene e qui si trovano tante cose. È facile. Lo street food mi piace. Ma non quello moderno, che invece odio perché ci sono cose che non mangio. Lo street food storico invece sì, è un piatto perfetto: dà sostanza, sapori, tutto. È una storia delle popolazioni locali che ci hanno messo tanto impegno.

Hai mai pensato di fare un menù a tema street food, con cibi da strada reinterpretati da te?
Sì. Ho i miei sogni. Sognare fa bene.

Lo street food è una storia delle popolazioni locali.

E quale altro grande sogno hai?
Io so fare solo questo lavoro. Però tutto quello che ho imparato vorrei usarlo per aiutare altre persone nel mondo che hanno bisogno. Tante persone hanno problemi a mangiare, paesi sviluppati sprecano e buttano tanto cibo, anche in Giappone si butta una quantità enorme perché è arrivato ad una scadenza e si butta per soldi. Questa cosa non mi piace: io ho lavorato tutta la vita nei ristoranti stellati, ma alla fine ho detto basta. Ho pensato di usare la materia prima completamente: non butto niente, metto su piatto con un prezzo giusto che la gente può capire. La mia filosofia viene dalla cultura di questo paese: gli italiani antichi non buttavano niente. Tutto questo è il mio rispetto per la vostra cultura, e il cibo è un soggetto della cultura. Mi piace molto anche l’arte, da sempre, ma vogliamo collegare questa arte con il mondo gastronomico o la moda. Ci sono tante cose che possono condividere questa visione. Sarebbe ancora più bello.