C’era un filetto di Fassona che si credeva una millefoglie e una maionese Heinz al tartufo che voleva essere la sua crema pasticcera. C’erano tre arrosti nascosti sotto la sfoglia impalpabile di uno scrigno gioiello, realizzato con gli ingredienti più umili al mondo, acqua, farina e uova. C’era un paiolo di rame fumante che custodiva il profumo dell’infanzia vissuta a casa dei nonni, dove le mattine avevano l’oro di un cucchiaio di zabaione in bocca. C’è un detto in Piemonte, campamac, che significa “mettine ancora”, “dacci dentro”, e, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere nato nelle cucine di Maurilio Garola. Executive chef del ristorante una stella Michelin La Ciau del Tornavento a Treiso (“anche quando il cielo è nuvolo, noi vediamo sempre la nostra stella…”), due anni fa Maurilio insieme al suo partner in crime di affari e di tavola, Paolo Dalla Mora, ha deciso che per santificare la cucina di quel perimetro di beatitudine dei sensi che è la regione delle Langhe bisognava “tornare indietro per andare avanti”. Per far questo, occorreva appellarsi al padre di ogni bistrot, l’osteria. E alla madre di ogni boutique gourmand, la bottega. È così che, su 3 cantine, 60 mila bottiglie, 1800 etichette e 40 tuorli d’uovo (tanti ne servono per impastare tajarin da manuale), viene fondato Campamac Osteria di Livello a Barbaresco. Un luogo a cui tornare, senza rimuginare troppo sui chilometri da macinare, per (ri)conoscere i sacrifici e le soddisfazioni della ristorazione a chilometro 0. Di quelle che non hanno fretta di aspettare 60 giorni per aspettare che si compia il miracolo della frollatura, in cui le proposte sul menu si contano con le dita di due mani (e meno male), dove prima di accendere i fuochi, si esce a “cacciare tartufi” e, quando li si è trovati, si conservano nella tasca interna del giubbotto, “al posto del portafogli, vicino al cuore”. Domicilio dei funghi più preziosi al mondo, gli ipogei, le Langhe sono il territorio scelto da Heinz per continuare l’anno di celebrazioni in occasione del suo 150esimo anniversario. Protagonista dei festeggiamenti italo-americani è la salsa più acquistata al mondo, la maionese. Che, per l’avvenimento speciale, si lascia rubare la scena da quello che all’anagrafe è il tuber aestivum. Da questa combo atomica nasce la Heinz Mayo al Tartufo, maionese in edizione limitata impreziosita da scaglie di tartufo e presentata con un menu speciale proprio dallo chef Maurilio Garola al Campamac. Ed è a lui che abbiamo chiesto se fra aste da record, quotazioni in ascesa e minacce di estinzione, il tartufo fa parte di quei tanti orgogli tricolore che ci stiamo dimenticando di salvaguardare. “Indubbiamente c’è un problema. La richiesta è talmente alta e talmente sproporzionata all’offerta che spesso e volentieri si è costretti a comprarlo da altre regioni. Dovremmo difendere il nostro, è chiaro, ma per fare ciò si dovrebbe istituire un’assemblea fra ristoratori, imprenditori, l’associazione commercianti, l’ente del turismo, i produttori di vino e i trifulau, i cacciatori di tartufo locali”.

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Courtesy Photo / Heinz

Cosa c’entrano i produttori di vino? “C’entrano perché fino a 20 anni fa, tutte le colline del nord del Piemonte erano letteralmente invase da noccioli, querce, tigli, salici e pioppo, la vegetazione ideale per la nascita dei tartufi, il boom del vino piemontese ha però fatto sì che si deforestassero tantissimi boschi per innestare i vigneti. È anche quello un business prospero e importante, ma se si continua così, tra 15-20 anni i tartufi si estingueranno davvero. Fortunatamente, da quando le Langhe sono state battezzate Patrimonio Unesco, i controlli sono stati potenziati”. Un bouquet di 20 specie regionali, un tesserino di idoneità a praticarne la ricerca e la raccolta, un’esportazione sempre più acutizzata verso il Giappone e la Cina, la storia del tartufo bianco piemontese è la storia decantata come un monologo dai tartufai “complici” della cucina “di livello” di Maurilio, tra i pochi chef in Italia a fregiarsi dell’epiteto “gourmet” con cognizione di causa. “È un termine abusato, lo so, ma per me rappresenta una cucina buona, masticabile, dai gusti ben distinti, che si avvale di materie prime ineccepibili. E questa, badate bene, è un’arma a doppio taglio. Se prometti il meglio devi anche mantenerlo, sempre”.

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E se per i trifulau il segreto di una caccia propizia è il caro e vecchio andar di notte, per chef Gariola il segreto di una cucina moderna è sempre l’occhio al passato. “Ad esempio, il mio vitello tonnato, il piatto che più mi rappresenta. È una combinazione di oggi e ieri. L’oggi è la cottura innovativa e creativa della carne, la parte più tenera della coscia di vitello, sottovuoto e a bassa temperatura. Il ieri è la salsa, alla vecchia maniera, come faceva mia nonna, con una crema di tonno, acciughe e il solo tuorlo d’uovo frullato insieme alle verdure di cottura della carne”. Tra mantecature au moment, fondute last minute e grigliate espresse, la vita dietro i fornelli di un ristorante può essere sostenibile? “Beh, la cucina è cambiata tanto negli ultimi 20 anni. Una volta si cucinava sulla stufa, lentamente, il pranzo già la sera prima sobboliva sul camino, adesso è tutto più espresso, realizzato all’ultimo momento, si tende a sprecare di più, acqua, elettricità, ingredienti… Il consiglio che dò in primis a me stesso è non stilare menu troppo lunghi e usare materie prime del territorio. Se per un mese riesco a trovare un ottimo coniglio allevato in cascina, io per un mese utilizzerò solo quello, non proporrò altro. Quando non riuscirò più a trovarlo, lo toglierò dal menu e cercherò altro. Questo è forse il segreto della sostenibilità, pensare semplice”.

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Filetto di Fassona in crosta di grissini con bernese di Heinz Mayo al Tartufo.