Dieci anni di cibo. Le tendenze food 2010-2019 sono un decennio di stratificazione, (ri)scoperta, passione. Cibi antichi e drink nuovi, alimenti resuscitati o totalmente inediti (a livello culturale), tecniche recuperate da un passato pressante, innovazioni della memoria che portano verso un futuro geograficamente saporito. Sano (molto) o junk food (poco&godurioso), di cibo abbiamo parlato in maniera ossessiva negli ultimi dieci anni, documentandolo tanto scrupolosamente da dare forma a professioni che nel secolo scorso nemmeno esistevano. Scritto, discusso, fotografato, guardato ossessivamente in streaming o studiato sui libri di cucina migliori, il cibo è uno dei temi centrali dell’ultimo decennio. Il piacere di mangiare bene è sempre di più a doppia trazione: bene inteso come “gusto ottimo” di una preparazione di alto livello, e bene che sottintende la parte sana della nutrizione, il cibo salutare che fa bene come una medicina al nostro corpo (con lo spiacevole rischio di bufale alimentari pericolose). Accanto a questo, è cresciuta capillarmente la presenza degli chef famosi su Instagram e in televisione: stellati e non mostrano i retroscena dalle cucine e le brigate nelle Stories, raccontano la propria vita professionale attraverso i feed, partecipano a programmi televisivi di culto oltre a cucinare i menu dei loro ristoranti. Già principali motivatori del consumo di cibo buono sotto ogni aspetto, gli chef sono diventati cruciali anche nell’alzare la tacca di livello dell’estetica del gusto.

Ma per inquadrare cosa è stato davvero il cibo degli anni 2010-2019 c’è una parola precisa: estetica. Dalla nascita e progressiva crescita di Instagram, il food è diventato condivisione di bellezza ed esperienza. L’instagrammabilità del cibo è diventata una costante e ha rielaborato in chiave 4.0 l’antico detto “il cibo passa anche dagli occhi”. Oggi il cibo passa soprattutto dagli occhi: una fiumana di immagini di torte, spaghetti, hamburger e via elencando affolla i feed a ritmo incessante. L’hashtag #food conta 367 milioni di post, #foodporn ne ha 214, #foodie 139, giusto per elencare tre dei principali tag che categorizzano le immagini di cibo su Instagram. Sono cifre che descrivono egregiamente la penetrazione martellante del cibo nella vita quotidiana, tanto che ci sono state anche correnti antagoniste: l’ugly food e le #womaneatingfood (che ingollano con goduria quel cibo che nessuno sembra mai mangiare) hanno provato a protestare contro l'impressionante mole di fotografie patinate.

Una reazione spontanea al rainbow food, costante caleidoscopica del decennio: a partire dal cake design esportato dagli Stati Uniti in modo massiccio nei primi anni Dieci dei Duemila, con cupcakes coloratissimi e uso smodato di pasta di zucchero, coloranti alimentari e glitter edibili, la parola chiave della nuova estetica del cibo è stata colore. Così è cresciuta la conoscenza del tè matcha, preziosa polvere d’oro verde giapponese che oltre ad essere una bevanda ottima è anche un potente colorante naturale, il carbone per tingere di nero pane e gelato, la barbabietola per ottenere il rosa tanto caro ai millennial, la curcuma per il golden milk salutare (e la tintura di ogni strofinaccio della cucina). Il cibo bello da vedere e mangiare ha sposato le mazzette Pantone del gusto: piatti coloratissimi con contrasti elegantemente studiati, sia di gusto sia di tonalità, quando non veri e propri giochi col cibo portati all'estremo. Frutta e verdura coloratissime -zucca, kale, broccoli, cavolfiore, melograno, cavolo rosso- sono diventate sempre di più le protagoniste del decennio, complice anche il progressivo aumento dell’alimentazione prevalentemente vegetale e la ricerca incessante di sostitutivi/alternativi alla carne e al pesce. Le papille gustative hanno revisionato sapori lontani, come nel caso delle riscoperte dei grani antichi con il loro carico di sfumature sensoriali, ma soprattutto hanno cominciato a viaggiare per il mondo.

Scoprire nuovi sapori e culture ha determinato anche la riconoscenza di alcuni limiti. Primo fra tutti, la difficoltà dell’alimentazione sostenibile a tutti i costi, prezioso concetto di improbabile realizzazione. Il cereale-non-cereale più in voga del decennio è stato la quinoa, preziosa fonte di proteine completamente priva di glutine, perfetta anche per chi è allergico o per i celiaci. Il risvolto della sua preziosità è stata l’apertura del vaso di Pandora del bipolarismo alimentare: la quinoa cresce tendenzialmente sugli altipiani della Bolivia in determinate condizioni atmosferico-meteorologiche, coltivarla richiede sforzi notevoli, trasportarla in giro per il mondo ha costi difficili da contenere. Per abbassare i prezzi il mercato affamato ha richiesto l’aumento dei ritmi di produzione, impattando su contadini e terreni coltivabili in modo aggressivo pur di garantire il benessere del primo mondo. Un cortocircuito di responsabilità e priorità che ha evidenziato brutalmente la grande ipocrisia delle mode alimentari del decennio e del capitalismo che le istiga, le nutre e le sfrutta per indotto economico: se da un lato la filosofia del km zero ha evidenziato la necessità sempre più impellente della filiera corta di frutta e verdura per un minore impatto ambientale e una garanzia di freschezza (almeno sulla carta), dall’altro la consumazione di alimenti esotici è cresciuta in maniera esponenziale.

L’avocado è il caso principe. Sul pane per gli avocado toast, da bere negli avolatte (versione green del cappuccino), nelle insalate per ravvivarle o con l’onnipresente guacamole di derivazione messicana, l’avocado è il frutto simbolo di una generazione. Protagonista di colazioni social e inchieste sui suoi effetti collaterali, celebrato e indagato (su “Rotten” su Netflix, che anche con Chef’s Table ha contribuito a formare i gusti videoludici dei millennials), avverso a chi non ne apprezza la cremosità, idolatrato per i suoi grassi buoni, abbinato prevalentemente all’uovo poché o al salmone per una combo corroborante, l'avocado è il cibo del decennio über alles. Il suo protagonismo è diventato palese con il nuovo modo di mangiare, che sta lentamente sostituendo le tappe del pasto per riassumere nel piatto unico tutti i nutrienti necessari senza dimenticare il gusto. E se agli inizi del millennio quello che stuzzicava erano le insalatone -l’accrescitivo che dava l’illusione di mangiare di più- a fine anni Dieci l’arrivo del poké delle Hawaii ha spodestato il sushi dalla rapidità di consumo. Il mix di pesce fresco, cereali, frutta e verdura a piacere in un’unica bowl è stato il Caronte delle abitudini alimentari verso il fast good: mangiare bene e rapidamente, tra uno scroll IG e una mail. Le combinazioni delle pokè bowl sono infinite e le pokerie aprono come qualche anno fa i negozi di patatine fritte, ma senza impestare le strade di insopportabili olezzi.

Nell’era della velocità di consumo, il tempo è diventato paradossalmente il bene più prezioso, e ovviamente le cucine non potevano esimersi. Voler ottimizzare ha favorito lo sviluppo ramificato del food delivery, che negli ultimi anni ha modificato il mercato con reti capillari di consegna. Il cibo a domicilio ha innegabilmente segnato gli ultimi 6 anni del decennio: la crescita a percentuali positive, un’offerta sempre più personalizzata che punta alla fidelizzazione del cliente, la comodità delle app che permettono di ordinare/prenotare/perfezionare le proprie esigenze e innescano bisogni sempre nuovi. Ordinare cibo a casa mentre si sta sul treno dei pendolari e farselo recapitare in timing perfetto con il rientro è innegabilmente comodo, e ha spinto molte persone a superare la fase della golosità per puntare sul cibo healthy. Per tanti è un’abitudine, per altri una pigrizia da senso di colpa immediato, per molti una perdita delle tradizioni culinarie e della lentezza dell’assaporare il cibo. Il dibattito sul food delivery è naturalmente ancora spalancato; contemporaneamente, mangiare fuori casa è sempre più frequente, a ribadire non solo la possibilità economica ma proprio il piacere di farsi preparare il cibo da qualcun altro, epitome di un lusso accessibile.

La tradizione gastronomica, però, ha la capacità insita di adattarsi alle intemperie delle mode: le papille hanno memoria lunga e rielaborano incessantemente ciò che hanno assaggiato in passato. Lo street food è un esempio perfetto: piatti che più classici non si può serviti in modo diverso, gourmet q.b. per l'equilibrio perfetto, o addirittura in chiave fusion. Lo sviluppo dei mini food truck con i trerrote che diventano cucine portatili monotematiche ha dato il via ad un recupero di golosità che altrimenti sarebbero state seppellite nella memoria: cuoppi di mare in tempura ispirato alla tradizione napoletana, mini mondeghili milanesi che diventano finger da passeggio, pizza al taglio romana che lievita leggerissima per scrocchiare, rinnovata, ancor meglio di prima. Il tutto rigorosamente all’aria aperta, nelle manifestazioni gastronomiche o nelle fiere tematiche, se non addirittura nelle celebrazioni dei matrimoni dove si dimentica la pomposità sontuosa del pasto lunghissimo a favore di un tocco pop che regala linfa vitale alla tradizione.

Il nuovo decennio sta per aprirsi con il definitivo recupero di tecniche, piatti, preparazioni e modo di servire che vengono da un passato decisamente vicinissimo, gli ultimi dieci anni di cibo. Il kombucha, ad esempio, promosso come “bevanda salutare e con tante proprietà”, è stato il viatico all’attenzione dei curiosi, e nel 2020 la tendenza fermentati si cristallizzerà definitivamente: di libri di cucina e compendi sulla fermentazione si stanno riempiendo le librerie. E proprio nel campo del drinking si sono avuti alcuni dei cambiamenti più intensi degli ultimi anni: la nuova mixology ha incoronato il gin sovrano del bere miscelato di alto rango, ma la vituperata vodka si è presa la sua rivincita quale base del Moscow Mule nel suo bicchiere di rame, uno dei drink “nuovi” che ha caratterizzato il decennio. Il vino è diventato biologico, quando non biodinamico, in linea generale “naturale”, riprendendo fermentazioni e metodologie che erano rimaste nelle antiche botti di legno assieme alle conoscenze dei vignaioli più radicali: il sapere si tramanda sulla lunga. La birra, di contro, ha fatto un percorso molto personale uscendo dalle industrie della GDO per far impazzire tra cotte e dosaggi i microsperimentatori casalinghi, e ha fissato nuovi standard di sapore che erano considerati fissazioni da hipster ante litteram: la birra artigianale è un caso a parte e ha decisamente segnato il beverage di questi dieci anni conclusi.

Fuori dall’area alcolica delle tendenze cibo degli ultimi 10 anni, gli amanti del caffè hanno trovato la loro gioia gustativa nelle miscele cold brew e nel caffè filtro, che ha lentamente conquistato anche i più scettici pro espresso. Di conseguenza, sono cambiate le bevute della colazione: la latte art è stata sfoderata sui banconi dei migliori bar (sempre per quella questione estetica imprescindibile da Instagram) ma soprattutto è servita ad alimentare la diatriba sul latte vegetale che ha mostrato al mondo quanta gente non beva latte in età adulta. Le bevande vegetali di mandorla, soia, riso, sorgo, avena sono state sempre più distribuite nei supermercati, e hanno cambiato felicemente gusti (e digestione) di curiosi e appassionati anche quale base di centrifugati e smoothies healthy, un modo diverso di intendere la classica spremuta d’arancia arricchendola di sfumature di sapore. Con il nuovo decennio in arrivo qualcosa resterà negli archivi, altre tendenze food si adatteranno. Per tornare ciclicamente, mascherate da novità.