La stufa a legna accesa si avvertiva dal caldo, niente oblò o vetri temperati moderni per seguire le fiamme: bastava entrare in cucina per essere attirati magneticamente dal calore. I mestoli appesi al mini corrimano cromato di protezione, così che fossero funzionalmente vicini al raggio d'azione. Nel forno sfrigolavano le patate arrosto della domenica, nel ripiano in basso si teneva in caldo la teglia del pollo, rigorosamente velata con un foglio di alluminio perché non seccasse. Sopra la ghisa rovente si nascondeva il segreto della preparazione in corso in una pentola in coccio, allenata a sostenere lunghe maratone di cottura con uno spirito olimpionico. Era schermata con un coperchio spaiato che riusciva comunque a compiere il miracolo della combaciata, e la gara a capire cosa ci fosse lì dentro poteva cominciare: come si fa lo stufato, parte prima.

Da quando l'umanità ha scoperto il fuoco, la tecnica della grigliata ha iniziato a raffinarsi per diventare una disciplina da maître rotissier, in Francia arrotolano così tra i denti la professione stimabilissima del capo delle cotture alla griglia. Eppure il vero scatto culturale, riportano molti studiosi, è arrivato nel momento esatto in cui si è capito che gli alimenti potevano essere cotti anche in un liquido, vale a dire la bollitura (o lessatura), specialmente per quanto riguardava le carni. Qualunque gourmand sosterrà sempre che un sontuoso carrello dei bolliti può battere senza problemi la migliore fiorentina da quattro dita: due tipologie diversissime, accomunate da una tattica abbastanza rapida di esecuzione. Pochi minuti la fiorentina, massimo una quarantina i tagli di manzo in acqua (fredda per fare il brodo, già calda per mangiare il bollito: regola fondamentale): e i tagli più pregiati di carne avevano trovato la loro espressione preferita. Ma il resto? Tutte quelle seconde o terze scelte, per non parlare delle carni più complicate da cucinare, a rischio gommosità elevata, come potevano essere domate? La sorpresa è dietro l'angolo (della cucina): in quella pentola di coccio così accogliente che, tra uno sbattere di padelle e un Angelus in televisione, sembrava immune al placido scorrere del tempo, non c'erano sicuramente scamone, filetto e roast-beef. Le uniche votate ad essere raccolte in preghiera lì dentro erano le carni da stufato, i tagli meno pregiati ma più economici: la pancia di manzo o il muscolo, quando non addirittura altri tipi di animale che raramente leggiamo nei menu dei ristoranti. Il consumo di carne non era tanto, una/due volte alla settimana era già abbastanza per i portafogli. Fu il benessere economico a renderlo più frequente, ma l'economia famigliare imponeva di saper acquistare tutte le carni meno pregiate, i tagli e gli avanzi meno nobili, e soprattutto saperle trattare per renderle masticabili.

La magia dello stufato di carne si regge su equilibri sottili. Richiede un caparbio studio della materia prima e una finezza di uso degli attuali fornelli (o del camino col fuoco acceso, se siete fortunati). La massima resa e morbidezza si ottengono soltanto dopo ore e ore di paziente calore diffuso, addirittura andando letteralmente al risparmio: poteva capitare che si lasciasse spegnere la stufa, si avvolgesse la pentola in una coperta spessa e la cottura terminasse così, sulla ghisa che si raffreddava lentamente. Dentro quelle pareti di lana e argilla si compiva il miracolo assoluto della tecnica di cottura lenta più democratica che esistesse per avere un un piatto goloso, nutriente e accessibile a (quasi) tutti.

Di pentole di terracotta da stufato è piena la letteratura geo-gastronomica e le ricette non sono da meno: nella cultura berbero-marocchina, poi estesa a quella araba, si usa la tajine per lo stesso scopo, e in Grecia la lekanis per uso domestico è ancora oggi parte degli utensili da cucina. I francesi hanno legato alle celebri cocotte l'inno sublime della cucina d'Oltralpe, vagando tra ragôut e zuppe di celestiale bontà, tra cui la soupe d'oignon che si imprime nella memoria gustativa di chiunque varchi le frontiere transalpine; in Ungheria, dal canto loro, non hanno modellato il termine gulyás (alla bovara) per abbracciare ogni tipo di carne cucinata a lungo in un poderoso intingolo, così da creare il più celebre degli spezzatini sugosi, il gulasch, poi preso in prestito nell'era imperiale anche dagli austriaci e infine approdato sulle tavole di Germania. Nel raffinato Giappone, dove ogni dettaglio sembra cesellato dal divino e la carne pregiata vale più del platino, la donabe è un'imprescindibile pentola di terracotta smaltata realizzata a mano (si trovano anche di artigianato su larga scala): ne La cucina giapponese illustrata di Laure Kié e Haruna Kishi (Slow Food Editore) è menzionata tra gli indispensabili della cucina, e si usa per preparare il tradizionale oden, il bollito giapponese che è un concentrato di delizie della cucina del Sol Levante, o il nikujaga, lo stufato di carne con cipolle e patate inventato dagli chef della Marina Militare giapponese.

Nel nome del popolo italiano, l'innegabile versatilità dello stufato è stata vista a lungo come espressione da cugino povero del brasato e dell'arrosto morto (coloratura per indicare un arrosto in pentola e non in teglia, tanto per complicarsi l'esistenza). Per N generazioni cresciute a spezzatini misteriosi, lo stufato è invece l'elogio nobile alle più stringate necessità economiche. Poi non solo di carne si tratta: vale lo stesso discorso per verdure e legumi che hanno bisogno dello scorrere delle ore per magnificarsi, come nel sontuoso e ormai tornato popolarissimo macco di fave, e persino una zuppa di pesce potrebbe essere denominata "stufato di mare" dal vago retrogusto da menu anni 80. Principalmente, però, si parla di carne e carnivori. In concreto, cosa significa stufare la carne? Per definizione, significa cuocere in una casseruola munita di coperchio con l'aggiunta di grassi e liquidi come vino e brodo. Tutto qui? Ebbene no, ci sono delle sfumature: se prima la carne viene rosolata, ovvero cotta a temperatura alta in un grasso d'elezione per qualche minuto per creare una crosticina golosa e poi ricoperta con liquidi caldi, si parla di brasato. Nello stufato la parte della rosolatura si salta completamente, come riporta con piglio da gesuita della cucina il giornalista enogastronomico Allan Bay in Cuochi si diventa (Feltrinelli). È più simile alla cottura in umido, che è possibilmente considerata ancora meno cool dello stufato per quella incertezza tra eliminare il coperchio o tenerlo. Almeno lo stufato si sigilla.

Nelle cucine degli chef contemporanei di nuova tradizione, lo stufato è stato lentamente riscoperto quale cottura lunga e lenta che non ha bisogno di apparecchiature, attrezzature o orpelli tecnologici per essere realizzata. "Per tanto tempo si è traslata, erroneamente, la convinzione che le lunghe cotture potessero passare dalla padella alla busta del sottovuoto. Quando ho aperto il ristorante, ho detto basta: sono tornata al coccio e al tegame" racconta Sarah Cicolini, chef di Santopalato a Roma, trattoria moderna dove il menu è un concept album futurista di tagli di carne dimenticati. "Per cucinare una carne come la pecora o la capra, c'è bisogno di cotture fino a 6-10 ore a seconda dei casi. Quando si cucina un animale per intero, e non solo il girello o il filetto, le cotture sono o lunghe o lunghissime" prosegue chef Cicolini. "Per quel che mi riguarda, lo stufato è la cottura migliore per certi pezzi di carne, perché possono essere preparati solo in questa maniera. Nella cucina tradizionale romana c'è il picchiapò, che parte dal bollito e lo recupera mettendolo in cipolle e sugo per ore; anche la genovese tipica della cucina napoletana, altro piatto di recupero, si prepara soltanto con certi pezzi di carne" elenca Sarah Cicolini. Ma non sono da meno preparazioni di eterno amore indiscusso come le polpette, che si preparano, tradizionalmente, proprio per non buttare i tagli meno nobili: il macinato recuperato si impasta e si aromatizza, poi si rosolano e si immergono nel sugo, stufandole (appunto) in pentola a lungo per farle diventare la goduria che sanno essere.

C'è un aspetto extra che emerge in questa scuola di pensiero, abbraccia elementi di economia domestica, impatto ambientale e coscienza consapevole, ed eleva lo stufato a una delle poche tecniche di cottura in grado di ammorbidire tutte quelle carni già destinate al macello, carni che andrebbero sprecate. In una pentola di coccio e debitamente condite, invece, lo stufato le rende cibo da carnivori consapevoli, che non vogliono sprecare i quintali di un maiale soltanto per concedersi la lombata o la bistecchina. Per chef Cicolini, cucinare le carni più impegnative per fare lo stufato è un impegno concreto: "Facciamo così per recuperare tutto l'animale. Se si compra un lombo intero, o una costata intera, ci sono sempre le parti più tenaci come pancia o copertina: noi ricaviamo il pezzo nobile propriamente detto e la parte da stufare. Che pure in realtà è nobile, anche se la maggior parte delle persone di solito dice "è duro, non lo mangio" e lo butta. Invece si può fare a stufato per mangiarselo" specifica Sarah Cicolini. Un modo per abbattere i costi di spesa, anima vera della cucina degli scarti, dove in realtà il concetto di scarto si elimina alla base perché si mangia tutto. E una (ri)scoperta intelligente di tutte quei pezzi importanti di cui si è perso il gusto, oltre che modo migliore per partecipare attivamente ad una visione poco impattante della cucina: "Sempre di più, soprattutto dopo i momenti difficili, si andrà verso la cucina del recupero e avranno tutti una coscienza diversa" conclude Sarah Cicolini. "Bisognerà avere sempre di più la consapevolezza di ciò che mangiamo".