In futuro, nulla sarà come prima. È il refrain che accompagna una catastrofe, una truffa planetaria, una pandemia, ma anche un amore dannosissimo, un’azione sconsiderata, eccetera. Sarebbe bello ci fosse una specie di riparazione automatica, ma non ci credo tanto. Però ci spero: certe azioni decise o accettate in emergenza diventano tiepidamente abitudini nella normalità. E anche una cosa scemissima è istruttiva per sempre.

Quel martedì di lockdown, per esempio, guardo il mio carrello della spesa online fermo da giorni e vedo che la consegna è finalmente disponibile. Bingo! Pago (accidenti però, un sacco) e non vedo l’ora sia domani. Poi domani è oggi, suona il citofono, il fattorino bardato da astronauta esce dall’ascensore e inizia a scaricare sacchetti sull’uscio di casa mia e io comincio a portarli dentro. Uno, due, otto... Ma quanti sono? Esausta ringrazio, sto per chiudere la porta ma lui «no no, aspetti, c’è ancora un bel po’ di roba», e intanto vedo fare capolino dalle scale il portinaio, insospettito dal trapestio sul mio pianerottolo. È a questo punto che sento la mia voce rimbombare nel mio appartamento più deserto del deserto: «Eh sì, ma siamo in tanti...». Non sono mai stata così pronta e così scema in vita mia. «Eh sì, ma siamo in tanti!», roba da matti. Dopodiché, rinchiusa la porta, inizio a frugare dentro a quell’accampamento di sacchetti. E pazienza se un sedano così alto non l’ho mai visto, e nemmeno un cavolo nero che sembra l’Amazzonia e non entrerà nel frigo (ho le foto! ho le prove!). Ma perché un altro sacchetto di mele che ne ho appena messo via uno? Santocielo, ma lì ce n’è un terzo, e un quarto. Mi giro intorno smarrita, faccio dei timidi agguati: guarda guarda, e qui cosa ci sarà di bello? Pere. E lì? Pere. E là? Pere! E poi uno, due, tre sacchetti di zucchine. E via moltiplicando. Ecco spiegato quel conto assurdo. E ora? Ora - cioè dopo un tempo infinito impiegato a cercar di sistemare quel bendidio - controllo l’ordine. Eccole lì le mie 6 belle mele annurche, le 5 pere abate, i 2 broccoli romani... Fregoni!, ora mi sentono. Prima però do un’ultima occhiata allo scontrino. Non-ci-posso-credere! A sinistra vedo una piccola e subdola scritta - kg.-: ho ordinato non sei bensì sei chili di mele, e così via moltiplicando per tutto. Quel tutto che ho ammassato nel frigo (fino all’autosbrinamento), in cucina, sul terrazzino. Quel tutto che nella notte mi assalirà tipo invasione degli ultracorpi.

E invece no: via via mangio, cucino, surgelo, vado a fare la spesa al supermercato e già che ci sono compro anche il mocio («Perché, non l’avevi?» «No» «Ma non hai visto Joy, il film con Jennifer Lawrence nella parte dell’americana che l’ha inventato?» «Sì, ma che c’entra» «Ma la signora delle pulizie non lo usa?» «No»). Insomma, compro il mio primo mocio per pavimenti, ma quando provo a montarlo mi perdo nelle istruzioni e imploro l’aiuto del portinaio (ancora lui, chissà cosa pensa di me) che però è occupato e allora telefono alla mia adorata amica che sa tutto, compreso come ammaestrarmi prendendomi per i fondelli. È stata dura ma ce l’ho fatta, e sono stata tentata di usare il mocio anche per fare il cambio di stagione negli armadi.

Sartre io non l’ho mai amato: la sua Noia, lo stalinismo, tutte quelle pose, e soprattutto quel suo «l’inferno sono gli altri». Ma per carità, l’inferno è la quarantena! E comunque viva Camus, sempre (e anche Jane Birkin).