"La fine della carne è qui. Se ti importa dei poveri lavoratori, della giustizia razziale, e del cambiamento climatico, devi smettere di mangiare animali". Titolo e sottotitolo dell'articolo di Jonathan Safran Foer sul New York Times non lasciano molto spazio a congetture, ipotesi e dubbi. Sollevano un'urgenza che sembra non trovare risposta: collegare tutti i punti è complesso. Un paio di passi indietro sono necessari. Durante i due mesi di lockdown imposto dai governi nel tentativo di contenere la diffusione del Coronavirus, la natura discriminatoria della pandemia è emersa in tutte le sue contraddizioni: democratica nell'infettare tutte le classi sociali viaggiando coi droplets di conversazioni e colpi di tosse, profondamente diseguale negli effetti socio-economici a lungo termine. Lo scrolliamo nelle cronache quotidiane, lo leggiamo nei "non riapriremo" che impolverano social e vetrine. Ok, ma stavamo parlando di cibo: cosa c'entra il consumo di carne su scala globale con un'evento straordinario che ha fermato il mondo come non accadeva da 70 anni?

Il legame c'è. Lo abbiamo letto nelle petizioni per chiudere i wet market cinesi, tanto affascinanti quanto igienicamente poco controllati, dove i ricercatori e virologi hanno identificato il temuto passaggio del Covid-19 da animale selvatico ad animale destinato al consumo, fino all'ultimo step negli esseri umani. Sintetizzando molto, gli allevamenti intensivi modificano l'ecosistema in cui sono inseriti, il loro impatto è forte ed espone gli animali "addomesticati" al contatto con quelli selvatici, innalzando l'indice di rischio per quanto riguarda il passaggio di eventuali patologie. Non riguarda naturalmente solo la Cina: in questo processo di attori ce ne sono tanti, e inficiano ciascuno a modo proprio sul delicato rapporto tra umanità e Natura. Ma è sul versante produttivo-economico a lungo termine che l'intreccio si fa più stretto e complicato. E la cultura alimentare del cibo come nutrimento e come piacere entra in scena da protagonista prepotente, schiacciando le necessità e la sicurezza di chi ne permette la produzione. Jonathan Safran Foer prende in esame il suo paese, gli Stati Uniti: "La combinazione tra la scarsità di carne e la decisione del presidente Trump di tenere aperti i macelli nonostante le proteste dei lavoratori a rischio ha fatto riflettere molti americani su quanto la carne sia essenziale. È più essenziale delle vite delle classi operaie che lavorano per produrla? Sembra di sì. Lo stupefacente numero di 6 delle 10 contee che sono state identificate come focolai di Coronavirus sono la sede degli stessi macelli che il presidente ha fatto restare aperti". Non si tratta più di un semplice versante ideologico del diventare vegetariani oggi: l'iperproduzione della carne per soddisfare una richiesta di mercato nutrita e alimentata dai desideri delle persone, si traduce in condizioni di lavoro peggiori per i lavoratori. Cui si aggiunge, in diretta conseguenza, la salute stessa degli operai della carne, il loro rischio di ammalarsi per garantire la produzione. La loro vita, in pratica: la frase di Safran Foer non è una provocazione.

Il comfort food del lockdown è una questione politica su precisi fronti: sociale, ambientale, sanitario, economico. Ed è così in tutto il mondo. Dal punto di vista sociale, il Covid-19 ha evidenziato in modo dolorosamente cristallino le differenze di classe e il divario silenzioso, eternamente presente, che non rende tutti uguali in caso di emergenza. Molti occupati dei primi scalini delle filiere produttive hanno protestato per le condizioni in cui sono stati costretti a lavorare, senza protezioni o sicurezze certificate. In alcuni casi, gli interventi governativi hanno cercato di mettere toppe temporanee, proponendo regolarizzazioni a scadenza dei braccianti così da garantire almeno i raccolti estivi. Per questo motivo in Italia il 21 maggio scorso i lavoratori agricoli hanno incrociato le braccia, invitando i consumatori a non acquistare frutta e verdura per tutta la giornata: #fermiamoicarrelli è stata una delle proteste che hanno evidenziato l'ambiguità delle politiche del lavoro durante l'epidemia di Covid-19, andando a bloccare il primo gradino di una filiera produttiva cruciale per l'Italia. Nel caso specifico degli Stati Uniti citato da Safran Foer, la questione non riguarda frutta&verdura, ma proteine animali di maiali, mucche e simili: "La carne è inserita nella nostra cultura e nelle nostre storie personali in modi che pesano troppo, dal tacchino del Ringraziamento all'hot dog del campo da baseball. La carne ha odori e sapori straordinariamente meravigliosi, con soddisfazioni che somigliano al sentirsi come a casa. E cosa, se non la sensazione di casa, è essenziale? Eppure, un numero crescente di persone percepisce l'inevitabilità del cambiamento imminente" continua lo scrittore. Una radicale modifica di paradigma culturale per quanto riguarda l'alimentazione è difficile, ma possibile. Non un problema di qualità della carne, ma decisamente di quantità: se ne produce industrialmente ancora troppa, e non è comunque sufficiente a sfamare miliardi di persone. La produzione dei gas serra negli allevamenti intensivi di mucche sfiora cifre inimmaginabili: il Washington Post ha calcolato che se le vacche di tutto il mondo fossero un paese, sarebbero il terzo emettitore di gas serra esistente. Ad esclusione dei ghiacciai, circa il 30% della superficie terrestre è adibita a pascolo per il bestiame. Non si salva dall'impatto ambientale nemmeno il settore dell'agricoltura industriale: l'abbattimento delle vere fucine di produzione di ossigeno e conseguente storage di carbonio, vale a dire foreste, giungle tropicali e savane, causa un aumento dei gas serra. Allarmi simili erano stati lanciati per il pesce: depredare sistematicamente i mari per rifornire i banchi sempre con le 5-7 varietà (perché amate dai consumatori) ha pericolosamente sfoltito la biodiversità. Le specie ittiche non possono tenere i ritmi del mercato, rispondono ai propri, molto più lenti. Nonostante sempre più persone scelgano alimentazioni di qualità, con una cura e selezione degli alimenti di origine animale maggiore rispetto al passato, il problema cruciale è l'eccessivo consumo. Che per la carne trasla il discorso sugli allevamenti intensivi, ampiamente dimostrati quale concausa del riscaldamento globale.

"Quando si tratta di un argomento scomodo come la carne, si è tentati di fingere che la scienza inequivocabile sia la difesa, trovare conforto in eccezioni che non potrebbero mai essere ridimensionate e parlare del nostro mondo come se fosse teorico" specifica Safran Foer. Che postula una verità a suo dire banale: non possiamo proteggere l'ambiente mentre continuiamo a mangiare regolarmente carne, non possiamo pretendere di allevare gli animali in modo sostenibile se continuiamo a infarcire i nostri pasti di bistecche&polpette. Quel che è più preoccupante, è che non possiamo proteggerci dalle malattie del futuro continuando a consumare carne. Le cronache degli ultimi trent'anni lo riassumono rapidamente: le pandemie mondiali hanno avuto origine pressoché tutte da quella che Safran Foer chiama "relazione interrotta con gli animali". Gli studiosi e i medici definiscono zoonosi le malattie infettive (batteriche, virali, parassitarie o prioniche) che si trasmettono dall'animale all'uomo o viceversa. Come si trasmettono si sa: una malattia curabile come la salmonella è una zoonosi e la passano alimenti contaminati come carne di maiale cruda o uova non cotte. Ma era una zoonosi anche l'influenza spagnola del 1918: gli uccelli ne sono stati il veicolo. Ad oggi non è ancora stato identificato l'animale che agevolò il salto di specie verso l'uomo, causando la morte di 50 milioni di persone nel mondo nel giro di pochi anni, e mezzo miliardo plausibile di infettati. La SARS, l'aviaria, il morbo della mucca pazza, la suina, l'Ebola, punteggiano la cronistoria di un passato che deve spingerci a ragionare su come sia cambiato il nostro rapporto con gli animali. In futuro non sarà diverso: i ricercatori americani del CDC, Center For Disease Control and Prevention, hanno indicato come tre delle quattro malattie infettive che stanno emergendo negli ultimi tempi sono manifestazioni zoonotiche.

Le principali cause strutturali le ha evidenziate l'epidemiologo Robert Wallace dell'Agroecology and Rural Economics Research Corps del Minnesota, in un intervento su un articolo del Guardian intitolato Is factory farming to blame for coronavirus?: "Possiamo dare la colpa all'oggetto -il virus, la pratica culturale- ma la casualità si estende dentro la relazione tra le persone e l'ecologia" chiarisce lo studioso. Dobbiamo rivedere tutto quel che riguarda il come mangiamo. L'espressione "non consumate carne" è semplicistica, ma le domande sul modo di produzione della carne che mangiamo sono validissime. La filiera produttiva è disseminata di come: come vivono gli animali, come sono trattati, come sono le pratiche di allevamento. E soprattutto diventa centrale la questione di come sono trattati i lavoratori umani a stretto contatto con gli animali: la politica sociale del lavoro entra di gran carriera. Nel suo pezzo Jonathan Safran Foer si concentra principalmente sulla crudeltà degli allevamenti intensivi e i rischi concatenati ad essi. Lo sottolinea anche David Benatar in un articolo sul New York Times intitolato senza troppi giri di parole Our Cruel Treatment of Animals Led to the Coronavirus: "In futuro, dovremmo aspettarci che il nostro maltrattamento di animali provochi il caos sulla nostra stessa specie. Oltre alle future pandemie, affrontiamo il rischio reale della resistenza agli antibiotici negli allevamenti. Il principale contributo a questo è l'uso di antibiotici nell'industria zootecnica, come promotore della crescita (per portare gli animali al peso della macellazione il più rapidamente possibile) e per frenare la diffusione delle infezioni tra gli animali allevati in condizioni crudeli di allevamento industriale". Il problema si dirama su diversi fronti e per ora non c'è una soluzione univoca che metta d'accordo le parti in gioco: l'ultima decisione da prendere, qualunque sia, sarà durissima e avrà un impatto incredibile sulla cultura del cibo di milioni di persone. Dalla Cina agli Stati Uniti, dai paesi europei al continente africano, viene da chiedersi se il trattamento degli animali e del lavoratori dell'industria agroalimentare sarà il trigger che potrà determinare la stessa sopravvivenza umana. Scenario catastrofico. Ma non tanto distante da una realtà che procrastiniamo nel vedere.