Ogni mattina, intorno alle 7.30 massimo le 8.00, la signora Rosanna compie un rito immutato. Dietro le tendine che ingentiliscono l'entrata in cucina sotto i portici di Piazza Gramsci, a Santarcangelo di Romagna, sui fuochi troneggiano almeno tre moka cariche, a fiamma bassa: l'unica pausa concessa tra una battuta, un cartone e il caramello per il latte alla portoghese. C'è da metter su la linea, ché il servizio del pranzo non è così lontano. Il soffritto per il ragù colma quattro dita in un pentolone di alluminio, pronto a ricevere la carne e la pazienza della cottura. La concentrazione di Rosanna è scalfita da qualche raro sorriso mentre sbanca dieci chili di farina su un enorme tagliere pulitissimo, modella con le mani da bambina una larga fontana e comincia a contare. Uno - clac, due - clac, tre - clac. Fino a cento, pronunciato in un soffio soddisfatto. Le cento uova di tagliatelle di Zaghini iniziano a materializzarsi con il suono dei gusci d'uovo che sbattono l'uno contro l'alto, colpo secco per romperli con una mano sola e riempire progressivamente la vasca di farina. Una somma che non viene interrotta da nessuno, il numero delle uova nei cartoni è sempre lo stesso ma l'abitudine è cattiva consigliera, meglio l'aritmetica.

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Courtesy/Massimo Dall'Argine

Le mani di Rosanna si immergono a rompere la geometria, fondono il solido della farina con l'inondazione viscosa delle uova. L'impasto somiglia ad una cordigliera di crepacci d'oro giallo spolverata di neve, avvio brusco della sfoglia grezza ma già assemblata, divisa in dieci pezzi uguali che vengono ammassati in un monte sbilenco. Uno per uno, Rosanna li lavora con pazienza e movimenti rapidi, braccia leggermente piegate e spalle a sostenere le spinte annuendo qua e là alle chiacchiere che ritmano il tempo in cucina. Dieci palloncini perfetti: non una crepa, non un grumo. Attendono ordinatamente in fila la fase semifinale che sarà propedeutica alla loro destinazione d'uso: ravioli, tagliatelle, strettine, strozzapreti, cappelletti come scrigni commoventi in un brodo sostanzioso (che non è affatto quel liquido trasparente rinominato consommé per fare i fighetti, come si direbbe qui). Intanto la carne per il ragù è stata calata nel pentolone, gli involtini con la foglia di salvia si allineano in fila, si puliscono cassette di stridoli.

Pausa caffè, moka ricaricata sul fuoco sempre basso. Rosanna può iniziare a stendere quel romanzo di abbondanti uova sfoderando il suo lunghissimo mattarello, una katana di perfezione cui bastano pochi gesti ben assestati per creare la magia assoluta: niente pieghe, men che meno buchi, trasparenza in evidenza. La sfoglia romagnola è se possibile ancora più eterea di quella bolognese, con le zdaure pronte a verificare se tenendola in alto vicino alla finestra si intravedesse San Luca, la chiesa che dai colli domina la città felsinea. In Romagna, che coi santi ha sempre voluto poco a che fare, la verifica si fa con la mano sotto: spessore minimo e regolare, orlo liscio, geometria giottesca. Il primo lenzuolo di sfoglia va a riposare nella penombra della sala, steso sulle tovaglie dei tavoli. Via via, gli altri. Sono a malapena passati trenta minuti e le cento uova di sfoglia (che nei giorni festivi arrivano anche a raddoppiare) sono già pronte a diventare forma. Rosanna compie la magia della sfoglia da 45 anni. Da qualche tempo è in forza al ristorante Zaghini, la cui storia inizia nel 1895, inizialmente trattoria (in un'altra sede) fondata dal patron Edoardo affiancato dalla moglie Lucia. Che nessuno ha mai chiamato Lucia, bensì Velia, secondo quella straordinaria capacità onomastica di paese che corregge gli appellativi poco aderenti alla personalità del soggetto in questione. Della Velia restano i ricordi e le leggende tramandate, tra un brodetto e di una trippa che per rispetto alla sua memoria non sono più in menu. Patto tacito: in Romagna gli sberleffi si riservano ai santi, non ai defunti. A maggior ragione se hanno contribuito a costruire un immaginario culinario così culturalmente definito: certi grandi classici devono essere immutabili, al massimo si può parlare di perfezionamento per preservarli dall'eccesso di iconoclastia. Su una cosa però non si transige: la sfoglia si impasta, si tira e si taglia a mano. Ogni giorno. Punto.

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Courtesy/Andrea Casadei

Sono le 9.30, la luce entra di rimbalzo sotto i portici. Rosanna piega il primo lenzuolo di sfoglia, riposatosi mentre stendeva gli altri, e affetta le tagliatelle da avvolgere in nidi commoventi. Un paio di porzioni vengono calate in acqua bollente e saltate (con burro e parmigiano o con ragù e piselli: seconda colazione come si deve). Da mangiare vista fornelli come faceva Marcello Mastroianni che si piazzava in cucina a godersi l'unico momento di privacy di una vita sotto i riflettori. O Federico Fellini, spesso di passaggio, e Tonino Guerra, cliente più che abituale del ristorante che condivideva con Mastroianni amari a fine pasto ed elucubrazioni culturali. Celebrità a parte, discretamente appese con i ritagli di giornale in un angolo della sala, a Santarcangelo di Romagna il ristorante Zaghini ha superato il livello di istituzione per imporre direttamente il dovere di presenza. Persino chi è vegetariano può trovare sfoglia per i suoi denti, dentro e fuori menù (tipo le tagliatelle con gli stridoli quando è stagione, indimenticabili per ogni palato), anche se l'ode alla carne non è risparmiata: pollo alla cacciatora da consumare rigorosamente con le mani prima di aver messo in salvo la camicia dietro lo scudo del tovagliolo, coniglio farcito alla romagnola, agnello, maialino e via fauneggiando, da innaffiare con robuste dosi di Sangiovese delle cantine limitrofe (tra cui il Caciara di Ottaviani, che ne è complemento perfetto). Crème caramel fatto in casa, biscotti con crema inglese al marsala, semifreddo con scorze d'arancia completano il quadro finale di un monumento. Alla resistenza gastronomica della cucina romagnola, rinnovata ogni santo giorno.