Se si deve trovare un punto di svolta, potrebbe essere il discorso di Joaquin Phoenix all’ultima notte degli Oscar. Perché il dibattito carne sì, carne no fa già parte di noi, ma quando il nuovo re di Hollywood dice in mondovisione che dobbiamo trattare allo stesso modo il nostro prossimo e una mucca e ci commuoviamo, allora abbiamo un grosso problema: tutti noi che non abbiamo ancora fatto il grande balzo verso la sponda veg. E siamo troppi. Secondo la Fao, oggi nel mondo si consumano 250 milioni di tonnellate di carne, cinque volte più che nel 1950. Si tratta di 80 chili a testa all’anno. Agli animali, che consumano un terzo dei cereali prodotti al mondo, è destinato il 40% della terra arabile globale. Per produrre un chilo di carne si consumano 15.500 litri d’acqua. La popolazione cresce, e anche il benessere che concede il lusso di un hamburger o di una bistecca.

Qualcuno non sarà rimasto colpito dalle parole di Phoenix, ma poi è arrivato il Covid-19, che insieme a un cataclisma sanitario ed economico ha avviato una serie di riflessioni improrogabili: è pensabile che ancora esistano realtà come i wet market dell’Est asiatico (solo quelli cinesi garantiscono lavoro a 14 milioni di persone e un giro d’affari di 74 miliardi di dollari), dove a causa delle condizioni in cui vengono tenuti animali selvatici e no e alla promiscuità con l’uomo, si verifica lo spillover, cioè il salto di specie di un virus, che ha scatenato questa pandemia? E quando i wet market sono stati chiusi (ma poi riaperti per ovvie ragioni economiche, visto che sostengono buona parte delle famiglie a reddito medio-basso delle zone rurali) ci si sono messi i focolai di Covid dei mattatoi tedeschi e americani, che come frecce al neon hanno indicato fino a che punto non sia sostenibile un sistema di produzione basato sulla folle quantità (si macellano anche 30mila capi al giorno) e sullo sfruttamento della manodopera.

La soluzione più facile al problema, persino più del veganesimo perché non prevede una rinuncia o una sostituzione con carne vegetale, è la cosiddetta clean meat, ricavata in laboratorio dalla proliferazione di cellule staminali. Numerose start-up dai nomi assai rassicuranti (Innocent Meat, Peace of Meat) ci stanno lavorando e un rapporto di qualche mese fa della AT Kearney, una società di consulenza globale, pubblicato dal Guardian, predice che entro il 2040 il 35% di tutta la carne presente in commercio verrà da una provetta. Ci rassicura? «Questa innovazione potrà sì salvare molti animali, ma da un punto di vista culturale non aiuta affatto», sostiene Nicola Righetti, sociologo interessato a questi temi e autore del libro Tra sacro e vegano (Ferrari Editore). «Anzi potrebbe remare contro l’importanza di sviluppare empatia verso le altre specie. Rendendole inutili anche a fini alimentari, questa tecnologia si inserisce nel millenario percorso di progressivo allontanamento e indipendenza dell’uomo dalla natura».

E allora torniamo alla mucca di cui parlava Phoenix e proviamo a guardarla da un’altra prospettiva, quella italiana. Nonostante solo per Deliveroo dal 2018 al 2020 gli ordini per il delivery di burger siano aumentati del 1237%, erodendo il primato della pizza, nel nostro paese secondo Eurispes nel 2020 vegetariani e vegani insieme sono diventati l’8,9% della popolazione, superando il record del 2016. La scelta è dettata leggermente più da motivi salutisti (23,2%) che dalla volontà di rispettare il mondo animale (22,2%), e in generale sono i giovanissimi, tra i 18 e i 24 anni, ad avere avuto la tutela dell’ambiente come stella polare per decidersi.

In ogni caso, anche grazie a organizzazioni per il benessere degli animali da allevamento come la Compassion in World Farming Italia, molto si è fatto per migliorarne le condizioni di vita. «Il settore si è evoluto negli ultimi anni e oggi vanta tanti primati: giovani che hanno riscoperto questo mestiere, aziende all’avanguardia dal punto di vista dell’innovazione e della sostenibilità, allevamenti 4.0, alti livelli di biosicurezza e animal welfare», spiega Giuseppe Pulina, direttore del Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari e presidente di Carni sostenibili. E continua: «Vorrei chiarire un malinteso comune. Intensivi sono gli allevamenti ad alta tecnologia anche se gli animali sono tenuti al brado o in larghi spazi. Estensivi sono a bassa tecnologia, anche con animali confinati in spazi ridotti». In ogni caso, per i bovini siamo costretti a importare il 50% della carne. Solo il settore avicolo è in crescita e in grado di soddisfare il consumo nazionale, che è aumentato in funzione delle indicazioni dei nutrizionisti che invitano a prediligere le carni bianche alle rosse. Ma anche la crescita va di pari passo con una presa di consapevolezza diffusa, come racconta Roberta Fileni, la cui azienda, marchigiana, si è convertita al bio negli anni 90. I suoi prodotti arrivano ormai nei grandi supermercati ma lei non cambia le regole del gioco. «Ora coltiviamo i cereali che diventano mangimi, il che ci consente di fare un’agricoltura biologica e rigenerativa per lasciare la terra migliore di come l’abbiamo trovata». Un’idea che piace: durante il lockdown, secondo un rilevamento di Nielsen con AssoBio, il consumo di carne bovina e polli bio è cresciuto del 42,2%.

Una strada per il futuro può essere il flexitarianismo, che prevede il consumo di carne una volta a settimana. Pagandola un po’ di più. «Siamo disposti a spendere per la tecnologia dei cellulari. Be’, ce n’è anche dietro il cibo», dice Sergio Capaldo, fondatore del consorzio La Granda e responsabile Slow Food per l’allevamento. «Oggi esiste l’agricoltura simbiotica, che si fonda sul rispetto e sulla valorizzazione della simbiosi tra gli attori della catena alimentare: terra, animali, uomo. E quella 4.0 che ha abbassato drasticamente consumi e inquinamenti. Per applicarle e farle evolvere si studia proprio come nerd». Per poi, chissà, tornare alle terre abbandonate, ripopolarle con intelligenza...