Il gin è un distillato quintessenzialmente britannico, dunque più introspettivo che esuberante. Ovvio che gli italiani contemporanei, discendenti di fidati speziali e maestri universali di variazioni su qualunque tema, prima o poi, dovessero dire la loro anche in materia di gin. Sebbene l’esplosione del gin italiano (la Ginclopedia di Gin Italy ne scheda ormai oltre duecento) risalga solo a cinque anni fa, sarebbe sbagliato archiviarla come una delle anglomanie della nostra buona società (tipo i matrimoni in tight). Il fenomeno è legato a qualcosa di più profondo, come il nostro genio ricombinatorio o il nostro talento per la comunicazione dei territori e delle famiglie.

Ci sono infatti due tipi di ginaioli italiani di successo: i maestri dell’alambicco e i principi del commerciale. È altrettanto facile scambiare i primi — che in genere sono solitari — per nerd quanto i secondi — che si muovono in dinastia — per frivoli. I due tipi si incontrano annualmente al Gin Day di Milano e si guardano in cagnesco. Gli uni, palliducci per la vita passata in bottega a orchestrare erbe e retrogusti, sospettano gli altri di aver reso il gin italiano la birra artigianale del jet set. Gli altri, bronzei per il sole preso in tenuta, additano i nerd come freddi azzeccagalbuli.

Federico Cremasco, campione del primo tipo, è un erborista che va in giro con il camice anche alle fiere, e ha cominciato a fare gin ristrutturando una farmacia del ‘600 in uno dei borghi più belli d’Italia, Polcenigo. Voleva un Negroni perfetto, con poco zucchero, senza coloranti o conservanti, e per questo più beverino e digeribile che mai. Per riuscirci, questo piccolo, grande chimico delle Prealpi friulane ha dato vita a un Frankenstein alcolico: il trittico Gin43, Vermut25 e Bitter34 (i numeri corrispondono a quelli degli estratti utilizzati). In questa una parte di mondo l’anisetta e il cardamomo sono botaniche mainstream; molto meglio andare di elicriso o salvia Desoleana. Il suo marchio, Fred Jerbis, è tuttavia uno dei pochissimi nostrani che sia riuscito a superare i confini del mercato nazionale, tra ristoranti stellati e American bar di Grand Hotel.

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Courtesy Fred Jerbis

Filippo, Enrico, Niccolò e Ugo Sabatini da Cortona sono, invece, esempi del secondo tipo. Non hanno la loro distilleria: producono a Londra. Lo fanno da cinque anni ma è come se fossero cinquecento, in anni da vino. Si sono ritrovati nel loro casale del XVI secolo, dopo aver vissuto ciascuno in una diversa parte del mondo, scoprendo che la loro nuova missione sarebbe stata raccogliere, nei loro undici ettari, le nove botaniche che compongono il Sabatini Gin. Un prodotto dry solo nel processo di distillazione, per il resto è atmosferico-leonardesco, a partire dall’etichetta sempre cangiante in base alla luce e al livello di consumo, con le chiome dei cipressi chianini che fanno da tacche. Il loro orgoglio per quelle botaniche a km 0 è sentito come la fierezza di quei virgulti che agitano (o mescolano) i loro gin tonic di famiglia, mentre ti invitano, col sorriso di chi sa di definire a colpi di shaker una nuova possibilità per l’imprenditoria agricola italiana, a una visita nella loro limonaia trasformata in gin-room.

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Courtesy Portofino Dry Gin

Come tra Platone e Aristotele nella Scuola di Atene — o tra il Negroni e il gin tonic — tra Fred Jerbis e i Sabatini c’è di tutto. Ci sono fuoriclasse delle strategie di vendita, come il caso Engine di Paolo Dalla Mora, con la sua parodia motoristica della carburazione dell’ingegno che i distillati da sempre ci permettono. Ci sono ragazzi come quelli dietro il Portofino Dry Gin, la cui presentazione è raffinata quanto il prodotto, frutto di un’idea della perla del Tigullio di cui l’attuale generazione è la base alcolica e i suoi illustri nonni le essenze estratte dalla memoria di quel luogo straordinario. Un viaggio nel gin italiano è un raro caso di viaggio in cui, una volta tanto, non conta tanto il percorso, quando la meta.